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Cavallino attraverso i secoli
Capitolo precedente: Capitolo terzo Capitolo successivo:
Dall'invasione dei barbari
all'anno mille
Dalla conquista normanna alla venuta dei Castromediano Dal governo di Maria d'Enghien
alla costituzione del feudo

PARTE PRIMA: LA BARONIA

Capitolo terzo

DALLA CONQUISTA NORMANNA ALLA VENUTA DEI CASTROMEDIANO



1- Cavallino incorporato nella Contea

Dopo i Longobardi e i Bizantini, arrivarono dalla Francia i Normanni, discendenti dei Vichinghi, valorosi navigatori, coraggiosi combattenti e crudeli predoni.

Nel 1040 sparute schiere di Normanni, guidate dai fratelli Altavilla, penetrarono nel Salento; dopo aspre lotte cacciarono i Bizantini e si insediarono come padroni nelle nostre contrade. Roberto il Guiscardo (l’Astuto) diventò duca di Puglia e di Calabria, ed un suo pronipote, Goffredo I, prese il titolo di conte di Lecce (1055).

Trentatré anni dopo, e precisamente nel 1088, anche il casale di Cavallino venne incorporato nella contea ed ebbe per signori i conti d’Altavilla. Da quel momento Lecce e Cavallino vissero per qualche secolo le medesime vicende storiche.

Dopo il conte Goffredo I si susseguirono, da padre in figlio, tre altri discendenti normanni: i conti Accardo, Goffredo II e Roberto, il quale annesse numerosi casali estendendo il dominio della contea su tutto il Salento.

Nell’interno del territorio c’erano parecchie infeudazioni minori, sicché la contea risultava sminuzzata e divisa in molti subfeudi, man mano assegnati a militi e a valvassini come compenso di aiuti e favori resi al conte.



2- Tancredi, conte di Lecce e re di Sicilia

Dopo il breve ma splendido e cavalleresco periodo di Roberto, divenne conte di Lecce il nipote Tancredi di Altavilla, nato dalla relazione amorosa di Sibilla, figlia del conte Roberto, con il cugino Ruggero, primogenito del re di Sicilia Ruggero II. Subito dopo la nascita del figlioletto, il principe ereditario per ordine del padre abbandonò Lecce e rientrò a Palermo. Pochi mesi dopo fu colto dalla morte.

Sul trono del regno dell’Italia meridionale a Ruggero II successe il secondogenito Guglielmo I, in seguito soprannominato “il Malo”, il quale si mise a perseguitare il nipote illegittimo Tancredi; questi fu costretto a fuggire da Lecce e a rifugiarsi a Bisanzio, presso il monarca d’oriente, mentre il Malo radeva al suolo l’antica città di Rudiae e lasciava al saccheggio dei suoi soldatacci Lecce, Cavallino e i casali viciniori.

Soltanto quando il regno passò nelle mani di Guglielmo II, detto “il Buono”, nel 1166, Tancredi poté fare ritorno nella contea accolto con affetto immutato dai sudditi fedeli.

Per breve tempo il conte Tancredi ebbe agio di riportarsi nella sua Lecce, poiché il 1189, morto senza figli il cugino Guglielmo II, i baroni del regno lo elessero re di Sicilia e dell’Italia meridionale. A tale scelta si oppose invano, a nome e per conto del papa, il nunzio apostolico Giovanni Battista Castromediano, vescovo di Cappadocia.

Per salutare il loro signore, tutti i Cavallinesi si portarono a Lecce, felici di applaudire ed acclamare il nuovo re, ma amareggiati di perdere il loro conte, un signore che aveva dimostrato di sapere amministrare il suo dominio con capacità e con equilibrio, meritando il rispetto e la riconoscenza degli abitanti del contado.

Successivamente e in seguito a complicate vicende tennero la contea di Lecce e il casale di Cavallino, ma per brevissimi periodi, prima Roberto Visconti il quale aveva preso in moglie Madorica, poi Gualtieri III di Brienne che aveva sposato Albina, l’una e l’altra figlie di Tancredi conte di Lecce e re di Sicilia e Napoli.



3 - Gli Angioini a Napoli e i Brienne a Lecce

Morto re Tancredi nell’anno 1194, la monarchia normanna fu continuata dalla dinastia imperiale degli Svevi successori di Federico II. Dopo oltre cent’anni di regno, la monarchia normanno-sveva non era più ritenuta straniera, e i conti di Lecce, sempre imparentati con la famiglia regnante, non erano sopportati come feudatari-padroni, ma piuttosto considerati come rappresentanti del re, per cui i rapporti tra Leccesi e Cavallinesi da una parte e conti e sovrani dall’altra erano stati sempre buoni comprensivi e leali.

I rapporti si guastarono quando, morto sul campo di battaglia re Manfredi, conte di Lecce e capo dei ghibellini italiani, venne eliminata nel 1266 la dinastia sveva e il vincitore, il francese Carlo I d’Angiò, diventò padrone del Reame di Napoli e assegnò alla famiglia francese dei Brienne la contea di Lecce.

Ma i ghibellini salentini, guidati dal valoroso condottiero leccese Corrado Capece, non gradirono né accettarono la decisione del re e impedirono con la forza l’ingresso in Lecce a Gualtieri IV, figlio di Gualtieri III e di Albina, e a suo figlio Ugo di Brienne.

Dopo qualche mese Ugo tornò alla testa di forti schiere regie e prima saccheggiò Cavallino e altri casali, e poi punì severamente Lecce, finché non rimase padrone della città e della contea.

Il re Carlo I d’Angiò con atto del 5 aprile 1291 riconfermò il possesso dei Brienne su venticinque casali salentini, tra i quali: Arnesano, Cavallino, Carmiano, Corigliano, Monteroni, Pisignano, Vernole, ecc.

Il conte Ugo morì nel 1296 (o il 1305?) combattendo in difesa di Lecce contro Ruggero di Lorìa, comandante dell’esercito degli Aragonesi di Sicilia. Ad Ugo successe il figlio Gualtieri V, che resse la contea fino al 1311. Gualtieri VI , duca d’Atene, ereditò i diritti su Lecce e Cavallino, ma mosso da incontenibile spirito d’avventura, non vi dimorò mai e non vi esercitò mai l’amministrazione diretta.



4- Prezzi e salari

Con la venuta dei Francesi nel regno napoletano e in modo particolare dei Brienne nella contea di Lecce i pesi fiscali si accrebbero ulteriormente, in quanto che i feudatari alle precedenti gravezze aggiunsero altre gabelle e prestazioni feudali; per esempio, ciascun colono era tenuto a prestare gratuitamente cinque giornate durante la mietitura, cinque durante la vendemmia e altrettante durante la raccolta delle olive nei fondi del signor padrone.

Le monete a corso nazionale erano: il ducato d’oro o d’argento che valeva 10 carlini rispettivamente d’oro o d’argento; il carlino (dal nome di re Carlo) equivaleva a 12 grana; il tarì valeva 20 grana; tarì 6 formavano un ducato. Monete a corso locale e di basso valore erano i tornesi e i pistacchi.

Un rotolo (33 once 1000 grammi) di pane costava un grano, mezzo grano se il pane era di orzo; un rotolo di maiale o di castrato 2 grana e mezzo; cefali e triglie 4 grana e mezzo, le sarde si vendevano a un grano a rotolo; un rotolo di fave verdi costava 2 grana.

La paga giornaliera di un cavamonte era di 16 grana, un potatore provetto riceveva a giornata 8 grana e una fascina di legna minuta, un bracciante 12 grana, le “iatecatrici” prendevano 5 grana, solo 4 grana le raccoglitrici di olive (la paga delle donne era meno della metà di quella degli uomini). Un salariato fisso, se mangiava a tavola con il massaro, riceveva un salario settimanale di 3 tarì ma doveva lasciare 10 grana come tassa sul lucro sicuro.

Troppo care erano le stoffe e le calzature; perciò le prime venivano tessute in casa e i vestiti dovevano durare a lungo; le scarpe di cuoio venivano calzate soltanto d’inverno e nei giorni festivi perché erano carissime costando quanto la paga di venti giorni di lavoro.

Per quanto riguarda il costo degli alimenti essenziali, il salario giornaliero potrebbe sembrare più che sufficiente; invece non era bastevole dal momento che buona parte dei grana veniva spesa per pagare le imposte, i dazi e i pedaggi.

Il commerciante ambulante di stoffe prima di cominciare la vendita doveva farsi dare dai dazieri la canna (allora non esisteva il metro), cioè la misura regolamentare munita di marchio, e, pena severe multe, doveva vendere ai prezzi stabiliti dal catapano. Ed i listini per il mercato di Lecce erano validi e in vigore pure per i mercati dei casali circonvicini.



5- Il casato dei Castromediano di Limburg

Il casato dei Castromediano nel 1156 venne dalla Germania in Italia con Kiliano di Limburg, capo mercenario al seguito di re Guglielmo I il Malo.

Anche Chiliano Castromediano preparò nel 1850 le “Memorie” dei suoi antenati basandosi su documenti esistenti nell’archivio di famiglia. Allegato, egli riportò copia di un privilegio scritto in latino secondo il quale il 28 novembre 1156 re Guglielmo I concesse a Kiliano di Limburg i feudi di Petra Pertosa, di Castro Bellotto e di Castro Mediano (da cui derivò il cognome), tre località della provincia di Potenza, in Basilicata.

L’anno 1903 intervenne il leccese Amilcare Foscarini, il quale nella sua documentata opera di araldica intitolata “Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto estinte e viventi” - Tipografia Lazzaretti - Lecce - sostenne che “tale opinione, diffusa dagli stessi interessati sul declinare del sec. XVI, non trova riscontro né in documenti certi né in scrittori anteriori a quell’epoca”.

Ad ogni modo, la questione ha poca rilevanza, trattandosi di una differenza del prima e del dopo di soli trentatré anni, giacché in documenti ufficiali si incontra per la prima volta sotto l’anno 1189 il nome di quel G. Battista Castromediano vescovo di Cappadocia e nunzio apostolico, e sotto l’anno 1239 il nome di un Ruggero Castromediano vivente in Basilicata.

I Castromediano poi nel 1274 si trovavano sicuramente in Terra d’Otranto, padroni del casale di Cerceto, donato ad un secondo Ruggero Castromediano dal re Carlo I d’Angiò; inoltre dai registri angioini risulta il nome di un altro Ruggero “Amministratore delle Regie Razze” e di Giovanni Castromediano di Brindisi, viceammiraglio del regno di Napoli e di Sicilia.

E’ certo, comunque, che all’inizio del 1300 il ramo dei Castromediano di Brindisi venne a stabilirsi in Lecce, dove a lungo dimorò nel palazzo di famiglia prospiciente la Piazzetta della Zecca, presso Porta San Biagio.



6- 1 primi baroni di Cavallino

Il cronista leccese Bernardino Braccio nel Notiziario o parte d’Istoria di Lecce 212-1616, rifacendosi a tempi lontani, all’incirca alla fine del sec. XIV, presentando l’elenco delle famiglie nobili leccesi, riferisce la notizia che “Li Maresgalli nobili et antichi Baroni di Lequile e Cavallino sono estinti”. Su questi primi signori del casale di Cavallino non si hanno altre informazioni.

Sul nostro paesetto più dettagliate notizie dà Amilcare Foscarini, nella sua opera prima ricordata. Parlando egli della famiglia de Noha afferma: “Antica e nobile famiglia le cui più antiche e certe memorie risalgono al 1253, nel quale anno viveva in Lecce un Pietro de Noha, e che probabilmente prese il cognome dal Casale Noha del quale tenne il dominio. . . Possedette questa Casa i Casali di Caballino, Noha, Francavilla e Padulano che, nel 1291, stavano sotto il dominio di Pietro de Noha, e che, il 1° (Cavallino) fu confermato, a 2 dicembre 1323, da Gualtiero VI di Brienne a Goffredo de Noha; e gli altri tre, nel 1353, erano soggetti a Guglielmo de Noha”.

Riepilogando, dunque, dopo la casa dei Maresgalli, i quali diedero molto probabilmente quattro baroni, tennero il dominio sul feudo di Cavallino i de Noha: Pietro dal 1291 al 1308; suo figlio Guglielmo I dal 1308 al 1322; in questo anno Guglielmo rinunziò alla giurisdizione personale su Cavallino assegnando una quota parte del feudo al figlio terzogenito Goffredo I e l’altra quota parte ai nipoti Luigi e Mita, figli di Rahone de Noha, premorto.

L’anno 1427, Goffredo II, 8° barone di Cavallino, morì e lasciò i suoi beni all’unica figlia Luisa, la quale aveva per marito Luigi Castromediano. Ecco come un Castromediano, a partire dal 1427, si trovò ad esser signore in Cavallino, proprietario e feudatario di una parte delle terre del casale e con il titolo di barone (9° della serie).



Casato dei Maresgalli:

Ignoti i nomi dei titolari del feudo di Cavallino.

Casato dei de Noha (memorie dal 1253):
Pietro de Noha
possiede:
Noha, Francavilla, Padulano
e Cavallino (1291-1308)
¦
Guglielmo I (1308-1322)
¦

¦
Guglielmo II
eredita nel 1322
Noha, Francavilla e Padulano

¦
Rahone
premorto
¦
Luigi e Mita

¦
Goffredo I (1322-1364);
¦
¦
Guglielmo (1364+1397);
¦
Goffredo II (1397+1427);
sposa Maria del Giudice;
¦
Luisa de Noa
sposata a:
Casato dei Castromediano: Luigi I Castromediano (1395+1439)
¦
Giovanni Antonio I (1422+1481)
¦
Luigi II (1452+1526)
¦
Sigismondo I (1478+1534)
¦
Giovanni Antonio II (1508+1571)
¦
Sigismondo II (1542+1615)
¦
Ascanio (1568+1628)
¦
Francesco (1598+1663)
(1° marchese)

7 - Il patto feudale

Nel corso di oltre un secolo, a causa del permanente stato di guerra, a causa della debolezza del potere monarchico, dell’insicurezza personale, dell’endemica povertà e della costante paura, gli abitanti di un territorio circoscritto erano costretti ad affidarsi ad un potente per riceverne sicurezza assistenza e protezione.

Per i Cavallinesi i più in vista e i più degni di rispetto e di omaggio erano i de Noha, cui successero i Castromediano, e a questi signori cominciarono ad affidare le proprie persone privandosi gradualmente persino dei diritti umani.

Fra signore e villano senza terra si stipulava un vero patto feudale, nel quale però era uno solo, il debole, a prendere un solenne impegno. Ecco la formula, comune a tutti coloro che spontaneamente si davano a vassallaggio:

“Dato che non possiedo cibo per nutrirmi né panni per coprirmi, ho domandato alla vostra pietà – e la vostra benevolenza me lo ha accordato – di potermi mettere sotto la vostra protezione.

“Per tutta la vita vi dovrò i servizi e l’obbedienza, non avrò la possibilità di sottrarmi al vostro potere, ma dovrò passare tutti i giorni della mia vita sotto il vostro dominio e la vostra protezione”

E così, pronunziando con giuramento la formula e sottoscrivendo con un segno di croce il documento, l’infelice uomo con le sue stesse mani si legava al piede la catena del vassallaggio, a nome e per parte anche della moglie e dei figli.

8 - Servi e coloni

Il signore era sempre ben disposto a promettere protezione chiedendo in cambio varie prestazioni personali da parte del soggetto. Con il passare del tempo il signore diventava sempre più esigente e sottoponeva il suo protetto ad ogni specie di sfruttamento, giungendo a spogliarlo di qualsiasi prerogativa soggettiva e di qualsivoglia diritto civile.

I vassalli senza terra, in una parola, formalmente liberi, diventavano dipendenti e sottomessi in anima e corpo. Questi nuovi schiavi si chiamavano o servi domestici o servi della gleba, a seconda se erano assegnati a servizi nel palazzo signorile oppure adibiti a lavori campestri.

I servi domestici esplicavano le mansioni di stallieri, palafrenieri, cuochi, camerieri, vigilanti, inservienti generici, e, aggirandosi nel palazzo, assaporavano di riflesso e in qualche misura la vita agevole dei padroni.

I servi rurali coltivavano il manso padronale, cioè le terre del signore. Non ricevevano alcun compenso in denaro ma, al pari delle bestie, soltanto gli alimenti e l’alloggio in misere capanne. I lavoratori si trovavano di fatto legati al fondo che coltivavano passando, in caso di vendita del campo, da padrone a padrone, e quindi nell’impossibilità di abbandonarlo. Questi infelici venivano considerati con commiserazione e con disprezzo persino dai servi domestici.

Il servo contadino, il servo pastore, faccendiere, cocchiere, fornaio, cameriere, ecc., non poteva cambiare mestiere senza il permesso del padrone. Anche i figli del servo erano proprietà del feudatario e dovevano seguire l’arte del padre, né potavano farsi, per esempio, preti o monaci in quanto che era assolutamente vietato mutare ceto sociale.

Anche i piccoli proprietari terrieri si affidavano al signore. Rimanevano giuridicamente uomini liberi, ma, in cambio di protezione, cedevano le loro proprietà; continuavano a coltivare i loro fondi con mezzi propri, ma vi dovevano praticare le colture stabilite dal signore e consegnare a costui oltre la metà dei raccolti. Questi contadini perdevano, quindi, il primitivo status di coltivatori diretti e assumevano la posizione meno apprezzata di coloni.



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