Sino alla prima metà del sec. XX noi leccesi, nella stragrande maggioranza, parlavamo raramente e più o meno bene la lingua italiana e usualmente e bene, invece, il dialetto locale, la lingua dei nostri padri, dalla cui viva voce l'avevamo appresa.
Quando venne istituita la scuola obbligatoria e prese a diffondersi l'istruzione, le famiglie delle classi popolari cominciarono a considerare la propria parlata paesana dapprima con antipatia, poi con disprezzo, addirittura con vergogna in quanto che la ritenevano un segno di ignoranza, un marchio di sottosviluppo, o comunque ritenevano il dialetto un ostacolo all'apprendimento perfetto dello scrivere e del parlare in italiano.
Era una concezione evidentemente errata, così come è certamente sbagliato ritenere che il dialetto sia un'erba nociva da sradicare. Sarebbe ciò una grave perdita, giacché il dialetto ha una sua storia interessante, conserva la civiltà dei nostri antenati, ha un ricco lessico, una sua grammatica e una sua sintassi, che rispecchiano l'anima, la cultura, i modi di pensare e di agire e operare dei nostri predecessori. Il dialetto, dunque, è una lingua complessa e nobile; del resto anche l'italiano, in origine, non era altro che il dialetto fiorentino. La lingua dei nostri padri, pertanto, insieme con la lingua nazionale, deve essere tenuta in grande considerazione perché ha, come l'altra, una grande importanza, essendo il nostro idioma il risultato della ricca antica storia spirituale sociale e culturale delle genti leccesi; un linguaggio, il nostro, fiorito in un ambiente principalmente rurale e artigianale, fatto di semplicità e di realismo, di povertà anche, e, tuttavia, di forte attaccamento alla patria terra.
Il dialetto leccese - ripetiamo - è una lingua completa ed evoluta, tanto che è bastata a soddisfare nel corso di molti secoli le molteplici esigenze creatrici, realistiche e fantastiche dell'animo popolare, e le esigenze artistiche di tanti poeti in vernacolo; un idioma, si consideri, che fa risalire i suoi primi balbettii in tempi remotissimi, anteriori alla nascita di Gesù Cristo; cominciò il suo lento evolversi, infatti, 2.200 anni fa, immediatamente dopo che gli antichi Romani ebbero completata nell'anno 266 a. C. la conquista delle terre abitate dai Sallentini.
Allora, alle popolazioni vinte i vincitori imposero le proprie leggi e la propria lingua, il latino (non il latino letterario e convenzionale dei dotti, ma quello familiare e spontaneo del volgo, la parlata della plebe urbana e rurale e il gergo dei soldati). Fu, comunque, interesse degli abitanti indigeni apprendere l'idioma dei conquistatori, perché ciò agevolava tra loro i rapporti sociali quotidiani, sicché a poco a poco il 'latino volgare' si andò sovrapponendo alla parlata locale.
Cominciarono ad essere accolte nel lessico indigeno (il messapico?) parole prettamente latine quali, per esempio, bùccula, carrara, fìstula, insìta, màchina, mèrula, musca, sìmula, spàtula, umbra, cùrrere, dìcere, mètere, curtu[s], pandu[s], tristu[s], intra, ecc. Tale fenomeno di assorbimento, di assimilazione e di rielaborazione linguistica da parte dei Sallentini si protrasse all'incirca fino al VI sec. d. C.; tuttavia, il latino appreso dalla popolazione locale risultò alla fine diverso pure dal 'latino volgare' dei coloni romani stanziati nella nostra penisola, e ne venne fuori un idioma del tutto particolare e caratteristico, elaborato secondo le qualità, le capacità, i mezzi espressivi peculiari degli abitanti, il linguaggio dei quali si mise a produrre parole differenti nella forma pur conservandone il significato, per esempio: lat. ansula = lecc. àsula, bruculus = rùculu, carraticia = carratizza, granarium = ranaru, hominem = òmmene, machinula = macìnula, sarcina = sàrcena, turtur = tùrtura, mucedus = mùcetu, pisinnus = piccinnu, nudius tertius = nustiersu, signum est = segnummeste, ecc.
Purtroppo non ci sono giunti documenti scritti (semmai ce ne furono!) che provassero l'esistenza di una parlata latino-salentina arcaica, rozza ed elementare. Ma di tale esistenza possiamo essere certi, non fosse altro che per l'evidenza della derivazione diretta dal latino popolare di migliaia di parole dialettali leccesi, le quali presentano tuttavia differenze assai marcate di pronunzia e di grafia tra volgare e leccese; per esempio: aucellus>aceδδu, celsus>gèusu, clocullus>chiuδδu, digitus>tìsçetu, exercitus>sièrsetu, stella>stiδδa, amplus>àpulu, laridosus>lardusu, emendare>mmèndere, fabellare>faeδδare, reviviscere>berìscere, ecc.
E' anche certo che quella parlata arcaica, arricchendosi attraverso il corso dei secoli prima con elementi linguistici dei successivi popoli conquistatori (principalmente Bizantini e Longobardi, Saraceni, Francesi, Spagnoli) e integrandosi poi, a partire dal XII sec., con l'apporto consistente dell'italiano popolare, diventò essa stessa una nuova lingua costituita da nuovi elementi fonetici, morfologici, sintattici e lessicali di varie e diverse derivazioni; per esempio: anca (long. hanka), biffa (long. wiffa), rappa (gotico krappa); e poi: ànesi, càmpia, fitu, tutumàgghiu, reme-nìa, provenienti rispettivamente dalle voci greche ànison, kàmpe, phytòn, titumàlion, trimenìa; e inoltre dagli arabi barda'a, garrafa, funduq, tammar sono derivati i leccesi arda, carrafa, fùndecu, tamarru; i termini francesi boìt, cheminée, jalne, mortier, ouate, toupet si sono trasformati in buatta, cemenèa, sçiàlenu, murtieri, uatta, tuppu; mentre gli spagnoli pelea, erdad, ufano, atrasar, callar sono diventati pelèa, erdate, ufanu, ntrassare, quagghiare.
Una lingua 'nuova', dunque, una lingua vera e propria, che non era più la lingua madre indigena, ma non era neppure l'idioma dei dominatori: era ormai il cosiddetto 'dialetto leccese', una parlata autonoma che si rendeva riconoscibile per i suoi particolari e precipui caratteri fonologici e morfologici e lessicali, presentando numerose differenze che riguardavano la pronunzia e quindi la grafia delle parole, l'uso degli elementi grammaticali e sintattici, la struttura stessa del pensiero e del discorso; una lingua, insomma, oltremodo interessante.
Questo dialetto finì per diventare la lingua dei Leccesi, l'unica lingua conosciuta e parlata dai ceti popolari urbani e campagnoli, un idioma compiuto e idoneo a soddisfare qualsiasi esigenza espressiva. Aveva solo un limite: quello di costituire una parlata locale, di essere, cioè, intesa e compresa in un ambito limitato, in un territorio ristretto quale era ed è Lecce e il suo precipuo contado, il capoluogo e la sua provincia.
Questa lingua sino a non molti anni fa la conoscevano e la parlavano tutti i Leccesi e i padri la trasmettevano sempre più arricchita ai figli. Ecco, noi l'abbiamo voluta raccogliere intera in questo 'dizionario' non per riesumarla e diffonderla tra le nuove generazioni (un dialetto in declino, per non dire in estinzione, da nessuno e in nessun modo può essere salvato!), ma al solo scopo di documentarla come fatto culturale, di conservarla come attestazione linguistica, glottologica, etnica, di registrarla col valore - come dire? - di 'ricupero archeologico'.
L'autore