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Grammatica del dialetto leccese


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PRESENTAZIONE



Con la pubblicazione della Grammatica del dialetto leccese di Antonio Garrisi, la "Gazzetta del Mezzogiorno" offre ora ai suoi lettori un importante documento a seguito della Storia del Salento, già pubblicata in 26 puntate nel 2004.

Quella pubblicazione ci fece rivivere i momenti più significativi delle nostre radici regionali, dai primi insediamenti umani nel territorio sino alla stabilizzazione delle diverse popolazioni che hanno marcato la nostra identità salentina: un'identità inizialmente territoriale d'origine messapica, diventata poi anche identità culturale con la romanizzazione della Messapia. Sappiamo ormai con certezza dalle fonti che quella romanizzazione, che già aveva raggiunto il territorio dei Peuceti e Dauni (Messapi del nord), a partire dal III secolo a. C. incominciò a premere sui confini della Messapia. I Messapi, che sino allora erano stati in lotta con i Greci di Taranto per respingere le loro mire espansionistiche, non furono più in grado di opporsi a Roma la quale, col pretesto di punire Taranto, aveva mandato i suoi eserciti per conquistare tutta la Penisola salentina e assicurarsi il dominio sull'Adriatico.

Già con le prime vittorie romane il territorio messapico cominciò ad essere assegnato ai veterani romani e, dopo la Guerra sociale, con la definitiva vittoria romana dell'89 a. C., tutto il territorio salentino venne assegnato alle gentilizie famiglie romane. Per almeno durante due secoli i Messapi, sempre più spogliati dei loro possedimenti e deportati come schiavi dopo ogni rivolta, alla fine del primo secolo d. C. erano diventati una classe economicamente disagiata e socialmente emarginata, costretti ad abbandonare anche la loro lingua e usare il Latino per la comunicazione linguistica con la classe dominante dei vincitori. Il lungo contatto nel comune territorio salentino dei padroni latini e dei coloni e schiavi nativi latinizzati, dette origine ad una nuova popolazione che nella lingua latina ricomponeva la propria cultura regionale.

Quella cultura regionale, iniziata da quando Roma fondò le sue colonie a Brindisi, già capitale della Messapia (244 a. C.) e a Lecce (125 a. C.), ci è stata tramandata, senza soluzione di continuità, dal dialetto leccese di cui la presente Grammatica è un importante documento per la conoscenza della latinità regionale e dell'attuale vitalità d'uso del sistema orale nella comunicazione sociale.

Il sistema linguistico leccese, come risulta da tutta la descrizione della Grammatica, è di tipo italo-romanzo secondo una varietà meridionale, con tratti più vicini al sistema siculo-calabrese, e con altri tratti più generalmente meridionali.

La prima caratteristica della latinità regionale del Salento è quella di una schietta 'romanità', nel senso cioè che un Latino diffuso nella CALABRIA romana, o antico Salento, è stato appreso dai Messapi senza particolari interferenze fonetiche, in quanto il loro sistema linguistico era molto diverso da quello latino, allo stesso modo degli Etruschi che hanno continuato una romanità schietta, base del toscano, a causa della forte divergenza tra sistema latino e quello etrusco. Nella vicina APULIA il Latino appreso da parlanti in maggioranza Sanniti, o più genericamente Osco-umbri, è stato contaminato da esiti di sostrato, in quanto Latino e Osco appartenenti allo stesso gruppo linguistico. Il Salento oggi, in continuazione di un Latino 'romano' ignora la sonorizzazione tipicamente pugliese d'origine sannita per Andonio, cambana, angora, ma conosce, almeno in buona parte del suo territorio l'assimilazione italica per i gruppi -ND- (kuannu), e per -MB- kiummu) come traccia di un probabile influsso ricevuto dai Messapi a contatto dei Sanniti: a Lecce però A. Garrisi trova sempre manda, índere 'vendere', pende, respúndere, ecc.

Accanto a questa caratteristica di schietta romanità, la latinità salentina presenta anche una più tardiva caratteristica d'epoca medievale.

Anche nell'Italia centro-meridionale il sistema del vocalismo tonico del Latino si era mutato nel nuovo sistema qualitativo a 7 vocali, con le due vocali estreme i, u chiusi, le due vocali medie e, o stretti, le due vocali medie e, o aperti e la vocale centrale a. La realizzazione delle due vocali e, o stretti non risultava univoca in tutto il territorio, nel senso che a Roma questi suoni venivano resi molto vicini a e, o stretti, a Lecce, e in altri punti, questi stessi suoni venivano resi simili a i, u larghi. Questa particolare realizzazione meridionale, in parte oscillante, si è protratta sino al VI secolo quando, per influsso dei Longobardi di Benevento, si rafforzò la tendenza, che era stata anche latina, a modificare le vocali toniche secondo una specie di armonizzazione con le vocali finali, per cui i suoni di i, u larghi finirono per stabilizzarsi in e, o a contatto di -A, -E, -O finali, e a chiudersi in i, u a contatto di -I, -U finali: troviamo così a Brindisi lu mesi, li misi, la sera, l'acitu, lu nipoti, li niputi, la kroce, li kruci. A Lecce, dominata dai Bizantini, non essendo arrivata l'innovazione beneventana, i suoni di i, u larghi hanno finito per avvicinarsi di più a i, u chiusi, con i quali si sono confusi, per cui sempre lu mise, li misi, la sira, lu citu, lu nepute, li neputi, la kruce, li cruci.

Una successiva innovazione della stessa origine ha poi modificato anche le due vocali medie e, o aperti con, o senza, dittongo secondo le vocali finali: in questo caso l'innovazione ha raggiunto tanto Brindisi che Lecce, (ma non Otranto-Ugento) per cui in tutti e due i territori si trova lu pete, li pieti, lu dente, li dienti, la socra, lu suecru, la morta, lu muertu, ecc. Di particolare però, nel territorio di Lecce si trova la monottongazione per alcune forme lessicali come l'éu 'uovo', ertu 'orto', ergiu 'orzo' (ma nel brindisino sempre ueu, uertu, uergiu, ecc.).

L'arrivo delle innovazioni medievali ha prodotto una triplice distinzione linguistica tra il tipo 'brindisino', che ha conosciuto le due innovazioni, il tipo 'leccese', che ne ha conosciuta una sola, e il tipo 'otrantino-ugentino', che le ha ignorate completamente. Anche se con questa triplice distinzione, l'antico territorio salentino risulta ancora ben distinto dal vicino territorio pugliese, per tutta una serie di tratti linguistici, come la palatalizzazione di A tonico (kesa 'casa', pene 'pane'), il frangimento vocalico (séire, 'sera', nepóute 'nipote'), la caduta delle atone (kes- 'casa', pen- 'pane', séir- 'sera', nepóut- 'nipote'), ecc., tratti presenti a nord della Via Appia, già confine romano che separava nell'organizzazione amministrativa della REGIO SECUNDA la CALABRIA dalla APULIA. Questa distinzione d'origine medievale non ha però cancellato i tratti di un'antica latinità comune a tutta l'Italia meridionale, per cui molte forme lessicali raccolte nella Grammatica, come nzurare 'maritare', vúngulu 'baccello' risultano diffuse non solo in territorio pugliese, ma anche in quelli sardo, calabrese e siciliano; così come sono diffusi anche antichi grecismi penetrati nel latino regionale come naka 'culla', cilona 'tartaruga'.

La Grammatica di A. Garrisi, oltre ad essere documento di una latinità regionale del Salento, è anche documento dell'uso vivo del dialetto utilizzato nella fascia della comunicazione sociale in un territorio dominato da Lecce.

Il sistema linguistico leccese, dal punto di vista storico è un dialetto, in continuità latina, modificatosi nel corso del tempo per diverse innovazioni d'origine interna e per influssi esterni di centri dominanti; dal punto di vista culturale è invece il sistema orale utilizzato nella fascia bassa della comunicazione sociale.

Ogni lingua romanza, in quanto risultato di un lungo processo culturale di tutta una comunità in un territorio unitario, si presenta come una fascia di sistemi o registri linguistici, con quello letterario-scientifico al vertice della fascia per la massima circolarità in tutto il territorio, i vari sistemi regionali ai livelli medio-alto e medio-basso per la circolarità in territori limitati, il dialetto nella parte più bassa per la minima circolarità linguistica. Data questa sua stessa collocazione e limitata circolarità, il dialetto non è la corruzione della lingua comune, o nazionale, da bandire dalla fascia della comunicazione sociale ma, nello stesso tempo, non è neppure un sistema da poter promuovere a usi più alti che non gli competono; come un dialetto deve essere rimosso quando è la triste eredità di una classe disagiata di analfabeti, così anche non deve essere piegato alle sperimentazioni di eventuale classe superagiata di alfabetizzati. Il dialetto rimane sempre una ricchezza della comunità per utilizzare distinti sistemi per usi diversi, ma non può aspirare di essere promosso a 'lingua', data la sua minima circolarità e la sua identificazione con una cultura minore.

A. Garrisi, che con la raccolta di costrutti tipici e frasi idiomatiche (confronta tutta l'Appendice) ha ben documentato l'energica vitalità del dialetto leccese, non ci nasconde che proprio tale vitalità possa avere anche un risvolto negativo: il dialetto nella continua resistenza agli influssi della lingua comune per mantenere inalterato il proprio sistema fonetico, morfo-sintattico e lessicale, può arrivare a sovrapporsi allo stesso sistema della lingua comune, impedendo ai parlanti la dovuta separazione dei distinti sistemi negli usi diversi. Perché il parlante leccese possa mantenere la consapevolezza, per es. di articolare in Italiano patria, quattro senza la sua abituale resa gengivale, dovrà possedere la doppia competenza della propria grammatica dialettale e quella della lingua italiana per non incorrere nelle sanzioni della comunità nazionale.


p. Giovan Battista Mancarella


Squinzano 5 maggio 2005




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