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Cavallino attraverso i secoli | ||
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Il primo cinquantennio del XX secolo |
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PARTE SECONDA: IL MARCHESATO
Capitolo dodicesimo
IL PRIMO CINQUANTENNIO DEL XX SECOLO
1- Cittadini di prima, seconda e terza categoria
Nei primi anni del regno d'Italia non tutti i cittadini godevano di uguali diritti politici. Anzitutto potevano votare soltanto i maschi non inferiori a venticinque anni, che avevano la licenza della terza classe elementare e pagavano tasse per almeno 40 lire.
Poi, in seguito a pressanti richieste e a vive proteste , l'età fu abbassata a ventuno anni, il titolo di studio alla seconda elementare e il censo a 19 lire, sicché gli aventi diritto al voto in Italia da 600.000 salirono a poco più di tre milioni e mezzo su una popolazione di circa ventisette milioni di abitanti.
Cavallino verso la fine del 1800 contava 1.600 cittadini: di essi 177 (circa la totalità dei capifamiglia) votavano alle elezioni amministrative comunali e soltanto 80, i benestanti, votavano alle amministrative e pure alle politiche. Le donne, ricche e povere, istruite o analfabete, non godevano di alcun diritto politico: erano cittadine di terza categoria.
Il livello di vita della gente meridionale si manteneva assai basso, tale da assicurare appena la sussistenza. La paga dei braccianti agricoli (e i Cavallinesi erano in maggioranza lavoratori a giornata) era fissata a una lira al giorno, ma i datori di lavoro davano solo mezza lira al giorno; chi non accettava l'offerta rimaneva senza lavoro: prendere o lasciare.
Ogni anno le ristrettezze economiche spingevano molti a emigrare in altri comuni più ricchi in cerca di lavoro. Per lo più erano le giovani che, in estate, si recavano nelle lontane masserie, per raccogliere tra le stoppie assolate le spighe sfuggite ai mannelli dei mietitori: del raccolto, una metà restava al massaro, la parte rimanente alle spigolatrici. In autunno, poi, si trasferivano nel Brindisino, ingaggiate dai proprietari di vigne, per fare vendemmia. Non era raro il caso che qualche giovanetta se ne tornasse incinta perché costretta a sottostare ai desideri del padrone.
2- Prime conquiste sociali e politiche
In caso di disoccupazione o di malattia un lavoratore non solo, per impedimento, non lavorava e non guadagnava, ma non riceveva aiuto da nessuna organizzazione assistenziale; proprio quando aveva maggior bisogno, gli veniva a mancare qualsiasi fonte di guadagno; allora, sì, per l'intera famiglia era una vera sciagura, e non soltanto economica.
Perciò, per volontà e decisione dei lavoratori cavallinesi fu istituita la locale "Società di Mutuo Soccorso," allo scopo di assistere i soci ammalati o infortunati con le quote di denaro versate spontaneamente dai lavoratori stessi. Tale benefica Società svolse la sua meritevole opera assistenziale fino agli anni trenta del XX secolo.
Essa era stata costituita nel contesto del movimento umanitario suscitato dal Partito Socialista Italiano, fondato ufficialmente a Genova nel 1892. Contemporaneamente anche la Chiesa cattolica con papa Leone XIII, tramite la ben nota enciclica "Rerum Novarum", prendeva posizione a favore delle categorie lavoratrici da sempre soggette a sfruttamento.
Socialisti e cattolici condannavano lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, chiedevano ai padroni di avere maggiore considerazione e comprensione delle necessità dei loro operai e di retribuirli conformemente agli accordi, e invitavano i governi liberali ad intervenire finalmente in difesa degli operai oppressi e sfruttati.
Sotto il governo di Giovanni Giolitti, in seguito a ripetuti scioperi ispirati e organizzati dalle Camere del Lavoro e dalle associazioni cattoliche, ai primi del 1900 le paghe passarono da 1 a 3 e 4 lire al giorno, la giornata lavorativa fu ridotta ad 8 ore, si rese obbligatoria l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, si migliorò l'assistenza e la pensione ai vecchi e agli invalidi.
Nel 1912 venne introdotto il "suffragio universale"; oltre agli istruiti ed ai benestanti, ottennero il diritto al voto anche gli analfabeti maschi di età non inferiore a 30 anni. Le donne rimasero ancora escluse.
Per questa nuova legge elettorale il numero dei votanti si raddoppiò: in Italia da 4 si passò ad 8 milioni, a Cavallino gli aventi diritto al voto salirono da 200 a 400 circa.
3- Cavallino, tipico villaggio agricolo
Agli inizi del 1900 a Cavallino c'erano quattro preti e parecchi giovanetti desideravano diventarlo ("Jata ddre case a ddu nna chireca nci trase", si diceva).
Tuttavia la vita spirituale doveva essere ben misera, risultando la religione fatta piuttosto di superstizione che di fede, preoccupandosi i sacerdoti più del benessere dei propri familiari che del bene delle anime dei parrocchiani.
Allora in paese il 95% degli abitanti erano analfabeti; essi stentavano a fare con la penna persino il segno di croce. Gli amministratori, facendo un notevole sforzo di bilancio, assunsero due maestri e istituirono la scuola comunale per permettere ai ragazzini la frequenza delle prime tre classi del corso elementare. Le lezioni si tenevano di sera e i pochi alunni dovevano o portarsi da casa il lume o pagare un soldo a sera per il petrolio, cioè 24 soldi al mese.
Rispetto ai tempi del feudalesimo la componente sociale, esclusi ormai i nobili, era rimasta immutata: quasi tutti lavoratori della terra (contadini piccoli proprietari, affittuari, coloni, braccianti), alcuni pastori, pochi artigiani, qualche mercante. Non esistevano negozi di alcun tipo; parecchie erano, invece, le bettole per la vendita di vino ed avevano molti clienti.
Cavallino, insomma, era il tipico villaggio ad economia agricola, il quale continuamente si dibatteva in problemi di miseria economica e di arretratezza morale che non sapeva oppure non riusciva a risolvere.
I sindaci, privi di iniziative e alieni da azioni impegnative, si limitavano a portare avanti stancamente una politica di ordinaria amministrazione, attenti e pronti sempre a salvaguardare i propri interessi.
4- Una precaria situazione ambientale
Le abitazioni erano tuttora quelle dei secoli passati, insalubri e ormai fatiscenti. Molto trascurata era l'igiene dell'ambiente e della persona. Era impensabile allora un regolare servizio pubblico di nettezza urbana, ma ogni famiglia teneva pulito il tratto di strada antistante alla propria abitazione. Non mancava chi, provvisto di paniere, raccoglieva in strada lo sterco lasciato dagli animali e lo andava a deporre, per poi rivenderlo, nella fossa del letamaio tenuta a cielo aperto nell'ortale di casa.
L'acqua era scarsa e perciò preziosa. Da secoli veniva attinta dalle cisterne, che raccoglievano le acque piovane, e dai pozzi pubblici, dai quali tutti i giorni, verso il crepuscolo, le giovanette facevano provvista di acqua con secchi o con anfore ('mbili).
I maschi non facevano quasi mai il bagno; le donne di tanto in tanto si lavavano nella tinozza di legno oppure nella bigoncia (cofanu) di terracotta.
Sempre nei primi anni del secolo, a prendersi cura dei Cavallinesi c'erano due medici che, considerando la loro opera come una vera missione al servizio della comunità, erano notte e giorno a disposizione dei cittadini, i quali, generosi come sempre e riconoscenti, compensavano le prestazioni mediche in diverse maniere, compreso un attaccamento amichevole e insieme rispettoso.
A Cavallino, sostenuto dall'amministrazione, c'era un quotato concerto bandistico-musicale, che rallegrava la gente in ricorrenza delle festività e accompagnava in corteo i morti nell'ultimo viaggio al camposanto.
Nel maggio 1904 in paese scoppiò una rivolta contro il sindaco che intendeva imporre il "focatico", cioè l'imposta di famiglia. Durante il tumulto scoppiò anche un aspro conflitto tra carabinieri e dimostranti, e parecchi rivoltosi furono arrestati e condotti nel carcere di San Francesco a Lecce. Dopo due mesi si celebrò il processo e tutti i detenuti vennero prosciolti per inesistenza di reato.
5- Giochi e passatempi
Poveri erano gli svaghi e i passatempi dei contadini cavallinesi e si svolgevano in comitiva avendo per lo più come premio ai vincitore un boccale di vino. Il passatempo maggiormente diffuso era quello delle carte napoletane (scopa, primiera, tressette, briscola, stoppa); praticata, ed in ogni momento, era pure la morra, che veniva giocata nella bettola, sotto il lampione all'angolo della via, in piazza sotto l'ampia chioma di un pioppo, persino durante le pause del lavoro.
Non era infrequente il caso che, dopo aver vuotato parecchi quartini di vino, il gioco si trasformasse in scommessa e finiva per degenerare in litigio e quindi in rissa e percosse.
La sera del sabato e della domenica era uno spasso osservare in piazza gli ubriachi; a seconda degli effetti dell'alcol, chi si metteva a piangere i propri defunti, chi intonava qualche romanza di opera lirica, chi diventava gradasso e spaccone e sfidava a duello il vicino con l'indice puntato a mo' di stiletto, chi "in vino veritas" sfogava la sua rabbia esternando ciò che gli rodeva l'animo.
Sul tardi uscivano le mogli, sante donne, per riportarsi a casa i propri uomini e, tuttavia, proprio per questo ricevevano come ringraziamento un sacco di botte. E loro, pazienti, sopportavano. Erano rassegnate; ritenevano un diritto dei mariti bastonare le mogli. Il giorno successivo tutto era dimenticato e si tornava al lavoro faticoso.
Ogni anno capitava una compagnia di attori girovaghi i quali, allestito il palcoscenico in un androne messo gratuitamente a loro disposizione, presentavano qualche dramma passionale suscitando le lacrime delle donnette dal cuore tenero. Faceva seguito la farsa, accompagnata dalle sonore risate degli spettatori. Di tanto in tanto veniva pure qualche funambolo, che, steso alto nella piazza un cavo d'acciaio, vi eseguiva vari esercizi di equilibrismo tra la viva meraviglia del pubblico, il quale ricambiava il piacere del divertimento con generose libere offerte.
Attori dilettanti cavallinesi immancabilmente durante la settimana santa rappresentavano la "Tragedia di Nostro Signore Gesù Cristo" tra la sincera compartecipazione dei presenti che, specialmente gli anziani, conoscevano a memoria tutte le battute dell'anonimo lavoro teatrale.
6- Una tremenda sciagura
Dopo la proclamazione del regno d'Italia (1860) e l'unificazione di tutte le province in uno Stato unitario, il paesetto di Cavallino non ebbe una configurazione amministrativa distinta e una vita civica particolare, ma la sua storia individuale si confuse con la storia generale e uniforme di tutti i Comuni italiani, partecipando o semplicemente guardando alle vicende nazionali a volte con interesse, più spesso con scarso entusiasmo o addirittura con diffusa apatia.
La stessa prima guerra mondiale (1915-18), contrariamente a quanto si voglia far credere, dalla popolazione e specialmente dalle madri cavallinesi non fu vissuta come un'eroica vicenda tesa a liberare le terre irredente dalla dominazione dell'impero austro-ungarico, ma fu subita come una tremenda sciagura che mandava i giovani figli al fronte e portava alle famiglie fame e privazioni, preoccupazioni e lutti.
Quando il sindaco e l'arciprete si muovevano insieme, i genitori dei combattenti si allarmavano e i loro cuori sussultavano ansiosi e apprensivi. "A quale porta busseranno? A chi annunzieranno la morte in battaglia del proprio caro?". Cavallino contava solo tre migliaia di abitanti ed ebbe 34 caduti in guerra, oltre ad alcuni mutilati e a parecchi feriti.
La guerra finì con la vittoria dell'Italia, ma la vittoria non fu di alcun vantaggio al popolo che aveva fornito i giovani per l'esercito. Se vantaggi ci furono, essi andarono ad altre categorie e non certo al ceto dei lavoratori.
7- Tra dittature e guerre
Acuta eccitazione sorse in Cavallino al sorgere del fascismo (1920-22). I più, i contadini, gli operai, gli artieri, seguivano con indifferenza le lotte politiche; alcuni, al contrario, si schierarono contro il movimento delle camicie nere.
Nei primi tempi, infatti, a Cavallino fascisti convinti e pieni di ardore non ce ne furono, tanto è vero che, per manganellare gli antifascisti e per far loro bere l'olio di ricino spesso vennero le camicie nere di Lizzanello e di San Cesario.
Poi tutto piombò nel grigiore di un'esistenza umile e autarchica, individualistica e sospettosa, nel grigiore di una vita, insomma, priva di fervori politici e sociali, povera di interessi culturali e spirituali, una vita regolata apaticamente dal podestà e dal segretario del partito fascista, l'uno e l'altro imposti dall'alto e sopportati dal basso.
Finché il duce Benito Mussolini non decise di scuotere il popolo italiano, trascinandolo in ben quattro guerre in pochi anni: la conquista dell'Abissinia (1935-36); la guerra di Spagna (1936-39); l'annessione dell'Albania (1939); la seconda guerra mondiale (1940-45).
Il dittatore fascista e il dittatore nazista, Mussolini e Hitler, appoggiandosi reciprocamente, cominciarono ad attuare la politica imperialistica aggredendo gli Stati vicini e sconvolgendo la pace prima dell'Europa e poi del mondo intero.
E fu l'inizio della loro ingloriosa fine!
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