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Cavallino - I luoghi della memoria | ||
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Caballinus = Cavallino | Il feudo e il casale di Cavallino | Strade, porte, cappelle |
Il feudo e il casale di Cavallino
Testimonianze storiche informano che intorno all'anno 1250 il territorio di Cavallino-Tafagnano-Ussano era parte integrante della Contea di Lecce, signoria personale del re svevo Manfredi, ed era stato concesso in feudo alla famiglia nobile leccese dei Maresgalli, baroni. Un altro documento angioino dice che nell'anno 1291, essendo conte di Lecce Ugo di Brienne, il vasto possesso dei Maresgalli, ormai estinti, pervenne sotto la giurisdizione feudale di Pietro de Noha e poi, nel 1308, da questi passò al figlio Guglielmo, lyciensis cioè leccese.
Agli inizi del '300 il borgo di Caballino ebbe un notevole incremento urbanistico per il fatto che parecchi forestieri vennero ad abitarvi, e nuove casupole, con muri di sassi sovrapposti e cementati con malta di terra rossa e calce, e con tetto di cannicci ed èmbrici, si aggiunsero alle già esistenti umili dimore, allineate sul declivio che si protende da nord-ovest a sud-est, precisamente dall'imbocco dell'antica via dei Morroni sino all'attuale Largo Loreto, lungo la direzione Fataru-Calò-Cuti-Calìa-Serra, costituendo un abitato con circa 360 anime. In Largo Loreto, al numero civico 29 ancora resiste un ultimo esemplare di tale tipo di casupola.
Casupola in Largo Loreto | Cavallino, Via Margherita di Savoia |
Al margine della zona bassa pantanosa, in posizione isolata e appartata stava l'unica Chiesa del borgo, edificata così lontana dall'abitato giacché quella era la norma (ricordiamo pure le solitarie cripte eremitiche), e perché allora solo nelle sepolture scavate sotto il pavimento della chiesa venivano calate le salme dei defunti, e, pertanto, era igienico e salutare costruire in luogo separato, libero e arieggiato la chiesa con le tombe da cui esalavano i miasmi nocivi della putrefazione dei cadaveri.
Nel 1322 il barone Guglielmo I de Noha, morendo, lasciò i feudi di Noha e di Francavilla al figlio primogenito Guglielmo e diede gran parte del suo feudo di Caballino, incluso l'abitato, al figlio terzogenito Goffredo, mentre assegnò la contrada di Tafagnano confinante con il territorio di Lecce alla nipote Mita, figlia orfana del secondogenito Rahone. E con beneficio del 2 dicembre 1323 Gualtieri VI di Brienne, Conte di Lecce e Duca d'Atene, riconobbe e, dietro pagamento, confermò a ciascuno dei baroni de Noha il possesso del rispettivo feudo.
Case vecchie in via dei Murroni | Case vecchie in via G. Leopardi |
Donna Mita continuò a risiedere nella città di Lecce, don Goffredo decise di venire a dimorare nel vicino casale di Caballino;
Settore antico del maniero dei Castromediano |
L'anno 1427 don Goffredo morì e il patrimonio intero passò all'unica figlia donna Aloisia o Luigia, sposata con don Aloisio o Luigi de Castromediano de Limburg, un nobile cadetto leccese che aveva sposato la baronessina Aloisia de Noha anche perché ella era una ricca ereditiera; pertanto, dall'anno 1427 un Castromediano, per diritto maritale, divenne signore e padrone di un possedimento vasto oltre la metà del territorio pertinente a Cavallino, infeudato tuttavia nella giurisdizione della Contea di Lecce.
Questi furono i signori de' Castromediano, baroni di Caballino (dal 1427 al 1627):
E questi furono i signori de' Castromediano, marchesi di Cavallino (dal 1627 al 1806):
Agli inizi del secolo XV era feudatario di Cavallino il barone Giovanni Antonio I detto il Vecchio, figlio di Luigi I de Castromediano e di Luigia de Noha, il quale da giovane era stato 'Capitan de' cavalli'; e proprio a Giovanni Antonio, che era il più stretto suo parente, donna Mita de Noha, con il beneplacito dell'ex regina Maria d'Enghien tornata contessa di Lecce, nel 1416 trasmise il proprio feudo di Tafagnano,
Cavallino, pianoro di Tafagnano |
Poi, il barone si dedicò alla organizzazione e sistemazione della sua vasta proprietà terriera assegnando masse (massarìa) di terra coltivabile alle famiglie dei capaci massari, e distribuendo i singoli poderi fertili recintati (chesure) agli esperti ortolani (sçiardenieri), i quali da parte loro si impegnavano a trattenere per sé il 40% di ogni prodotto della terra e a consegnare il restante 60% nei magazzini-deposito del signor padrone; inoltre, don Giovanni Antonio autorizzò gli artieri ad esercitare il proprio mestiere e i "maestri" ad aprire bottega; tutti quanti, comunque, soggetti e costretti a pagare gli annuali tributi fiscali, le imposte feudali, le gabelle e i dazi locali. Tempi brutti per i sottoposti!
Il cronista leccese Lucio Cardami nei suoi Diarii annotò: «1456 - A dì 5 Decembre die Dominico ad ore 11 pe tutto lo Reame venne no tremolizzo grande… Pe paricchi giorni si sentìo lo dicto tremolizzo et omne uno stava pe paura alla campagna et nullo dormiva né mangiava»; a Cavallino alcune vecchie case crollarono e altre rimasero lesionate.
E l'anno 1457 «A dì 15 Jannarii in omne Terra d'Otranto foi tanta neve che arrivao a dodici parmi: moriro paricchi animali de terra et dell'aria, et seccaro bona parte dell'àlbori»; a Cavallino rimasero particolarmente danneggiati gli ortaggi e le cime vegetali degli ulivi.
Sempre il Cardami ci informa che l'anno 1458 «A dì 20 Aprile vennero in omne Terra d'Otranto tanti de brùcoli (rùculi=cavallette), che fo no stopore, et se mangiaro omne seminato, vigneto, àlbori et omne cosa et pe tutto l'anno ci fo na penuria grande».
Nel 1467 la peste si diffuse nella Contea di Lecce, e pure il feudo baronale di Caballino ne fu contagiato e parecchi abitanti ne morirono, tanto che don Giovanni Antonio I fece costruire tratti di mura e porte in corrispondenza delle quattro vie d'accesso in paese; inoltre, il barone promise per cinque anni privilegi straordinari, facilitazioni tributarie ed esenzioni daziarie ai forestieri che intendessero venire a stabilirsi nel suo feudo (queste notizie erano incise in un riquadro della porta dell'Annunziata e ce le riferisce Sigismondo Castromediano nelle sue Memorie).
Ciò nonostante, parecchi Cavallinesi tentarono di trasferirsi nella città di Lecce, che prometteva l'esenzione dai tributi fiscali e daziari per la durata di un decennio; ma il feudatario Giovanni Antonio li ostacolò in ogni maniera, tanto che l'Universitas (il Consiglio comunale) di Lecce se ne lamentò con il Sovrano informandolo che «essendo venuti vaxalli de alcuni baruni a fàresi citatini de dicta cità, li dicti baruni et signanter (specialmente) Ioanne Antonio barone de Caballino li impediscono» (Archivio di Stato di Napoli, Registro dei Privilegi, n. XXIIII e n. XXVIII).
Un altro grave danno il casale subì nel 1480 allorché una schiera di soldatacci turchi, partiti da Otranto conquistata e diretti verso Lecce in esplorazione, «attraversando Caballino ne misero a ruba il territorio e l'abitato, vi uccisero alcuni ed altri trascinarono schiav» - è sempre il citato Sigismondo che ce lo dice.
Allora il nuovo barone Luigi II de Castromediano, figlio di Giovanni Antonio I, il Vecchio, insieme con una schiera di balestrieri suoi vassalli si unì agli altri baroni salentini accorsi per cacciare i musulmani da Otranto. Pure negli anni seguenti don Luigi, da valoroso uomo d'arme, fu impegnato in successive azioni belliche contro i pirati e contro i Veneziani che tentavano di occupare i porti salentini; e nel frattempo, in Cavallino, suo figlio primogenito Sigismondo I curava l'amministrazione del feudo e seguiva la erezione delle nuove mura intorno al borgo.
Queste nuove "mure" andavano dall'arco de lu Calò (o del Crocifisso) a porta Lecce, quindi a porta dell'Annunziata sino all'arco di Loreto.
Inoltre, i due signori feudatari ristrutturarono e ampliarono la vecchia dimora baronale, quella costituita dal primitivo nucleo della casa dei signori de Noha, e la fortificarono anche adeguatamente, essendo costante il pericolo di razzie da parte dei corsari turchi, saraceni, slavi.
L'abitazione padronale occupò tutto il lato nord-est dello stabile, con il prospetto principale rivolto verso l'abitato del borgo; la costruzione era separata dalle case comuni dirimpettaie mediante un interposto spiazzo largo una trentina di passi, l'attuale Largo Castello.
In questo spiazzo si aveva l'ingresso principale: un portale che si apriva ad arco a tutto sesto ed era evidenziato da una cornice rettangolare interrotta, in alto al centro, dal riquadro dello stemma dei Castromediano di Limburg scolpito sopra una lastra di pietra. Lungo questo lato prospettico erano disposte le camere dell'alloggio signorile; invece nella fiancata di nord-ovest, cioè sulla via de lu Calò (ora via Crocifisso), erano: un sotterraneo scavato nella roccia, un magazzino con le pareti di conci non intonacati, un forno e le rimesse.
Nel retrostante cortile aperto alla campagna c'erano: le stalle a tettoia, il porcile, il pollaio, la conigliera e, ben tenuti e protetti, due pozzi di acque sorgive e due capaci cisterne di acque pluvie.
Largo Castello. A sinistra il primitivo ingresso della dimora baronale, a destra la casa del "sagnatore". |
Essendo via via migliorati i sistemi di coltivazione agraria e progrediti i mezzi di produzione, essendo aumentata la superficie coltivabile in seguito a lavori di smacchiatura e di dissodamento, essendosi sviluppato il commercio dell'olio e dei cereali, erano aumentati i profitti e le rendite del feudo, tanto che il barone Giovanni Antonio II de Castromediano, detto il Giovane, figlio di Sigismondo I, verso il 1530 sul lato di sud-est adiacente alla strada de li Cuti (oggi via Vittorio Emanuele III) fece scavare un altro lungo seminterrato come deposito e, a questo soprastante, fece edificare un altro grande magazzino per la manipolazione dei prodotti agricoli commerciabili; inoltre, attigui a questi aggiunse altri locali ad uso rimessa per i calessi e le carrozze, e alloggi bilocali e monolocali per la servitù di palazzo. Ormai la residenza padronale era diventata un vero maniero, tutto pianterreno, edificato su tre lati rettangolari.
Il successore Sigismondo II, detto il Giovane, l'anno 1580 acquistò per 9.300 carlini d'argento e incorporò nel suo possedimento anche la vasta contrada di Ussano, comprendente pure le masserie denominate Sant'Alieni e Nsarti.
Masseria Nsarti, con torre e chiesetta |
E così i Castromediano divennero padroni feudatari del casale di Caballino e dell'intero territorio pertinente, con una superficie totale di circa 2.200 ettari, un latifondo costituito di oliveti, vigneti, seminativi, orti, maggesi, pascoli e macchia: una proprietà importante che, con lo sfruttamento dei campi e dei campagnoli (i servi della gleba o coloni), consentì ai signori proprietari di diventare sempre più facoltosi, noti e riveriti in Terra d'Otranto.
Nel contempo anche il casale si era urbanisticamente ampliato, e gruppi di quattro-cinque casette ciascuno si erano costituiti, aventi le uscite convergenti in una corte comune; tra le più antiche: corte de lu Sçuppettola, corte de lu Monte, corte de lu Murrone e corte de le Marange (sulla strada dei Murroni), corte de li Piritosu, corte de lu Rizzu e corte de la Taranta (sulla strada de lu Calò, vicine alla cappella della Madonna dell'Arco), la corte de la Calìa (sul tratto dell'attuale via Giancastello), la lunga e stretta corte de Papa Santu che metteva in comunicazione la strada de li Cuti con la strada della Madonna di Loreto, infine la corte de la Sçìsçiula (in via Madonna di Loreto: sui documenti è scritto Lo Reto, oggi via Cavour) e la corte dell'Uru (in via de lu Tutu, oggi G. Leopardi).
In Cavallino, i fuochi, cioè i nuclei familiari, erano aumentati passando da 82 (nel 1532) a 96 (nel 1543) e poi a 116 (nel 1556): la popolazione in venticinque anni era cresciuta di 153 individui, passando da 369 a 522 abitanti tassati.
Corte dei Piritosu | Corte dei De Dominicis |
E pertanto i Cavallinesi al margine sud-ovest della vasta spianata aperta alla campagna, zona rimasta sempre sgombra perché acquitrinosa, al posto della ormai fatiscente chiesa con tetto di canne e tegole, avevano eretto la nuova chiesa con la copertura in muratura, a semplice pianta rettangolare; inoltre, attorno all'ampio spiazzo lievemente avvallato erano sorte botteghe e case private di artigiani.
Ma questa vasta zona del paese - lo si sapeva per esperienza secolare - era soggetta a continui allagamenti per tutta la stagione piovosa e pure nei non rari acquazzoni estivi; sicché gli abitanti, con il consenso del barone don Sigismondo II, scavarono nel sito opportuno un canale di scolo lungo circa duecento passi, metà sotterraneo e metà a cielo aperto, che raccoglieva e portava via dalla radura le abbondanti acque pluvie convogliandole in un inghiottitoio naturale poco distante (nella Villa davanti), una voragine chiamata volgarmente "ora", una dolina, cioè, che in poco tempo smaltiva nel sottosuolo le acque inondanti; inoltre scavarono due profondi pozzi, più fondi della prima falda acquifera (puzzi spundati), nei punti di maggiore confluenza delle acque stagnanti.
Ora, la spaziosa superficie, colmata e consolidata con un conglomerato di pietrisco, brecciame e tufo pressati a massicciata, la piazza dunque, livellata, liberata dalle erbacce e abbellita da filari di pioppi piantati su due lati, era diventata una zona interessante e adatta alla futura espansione edilizia urbana; difatti, ai suoi margini sorgeranno in avvenire sempre più numerose le botteghe degli artigiani, le rivendite e le nuove abitazioni in muratura dei possidenti, tanto che essa diventerà il centro unico principale del paese, quale è tutt'ora.
Cavallino, l'abitato nel '500 |
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