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Pippi De Dominicis | ||
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Cenni biografici | Li Màrtiri d'Otràntu | Lu ballu de li muerti |
1902 - È evidente che, nella composizione dei Canti de l'àutra vita, Peppino non si era predisposto con animo devoto alla narrazione dei fantasiosi accadimenti d'Oltretomba, anzi aveva trattato contenuti dottrinali di catechesi cattolica con spirito per lo meno irriguardoso e con acerbo stile veristico.
Anche per fare implicita ammenda, forse, il Capitano Black compone, con sentimento riverente e pubblica con intenzioni quasi riparatrici, Li Màrtiri d'Otràntu, una cantica dedicata
un poemetto epico di 50 stanze, ciascuna di 4 quartine a rima alternata, per complessivi 800 versi, tanti quanti furono i cittadini otrantini decapitati dai turchi occupanti.
Maometto II, Gran Sultano dell'Impero Ottomano, già da tempo aveva deliberato di costituire sulla costa salentina, di fronte all'Albania, una testa di ponte, una base da cui proseguire poi alla conquista dell'Italia intera.
Il re di Napoli Ferrante, o Ferdinando I, d'Aragona, venuto a conoscenza delle mire e del progetto del sultano ottomano, segnalò il pericolo alle città adriatiche del suo regno. Ancora il primo gennaio 1480 il principe ereditario Alfonso d'Aragona, figlio di Ferrante, venne a Lecce, convocò i Sindaci delle Università (città) demaniali e i Signori dei casali feudali di Terra d'Otranto, li avvertì del pericolo turco e li invitò a fortificare le mura cittadine e ad approntare a proprie spese le altre necessarie e urgenti opere di difesa.
Il giorno 26 luglio del 1480, fu avvistata all'orizzonte nelle acque del Canale d'Otranto una poderosa armata straniera, che faceva rotta in direzione di Brindisi. I centri abitati rivieraschi furono posti in allarme e la gente fu assalita da ansioso timore. Il giorno dopo i 200 velieri battenti la bandiera della Mezzaluna compirono una diversione e fecero supporre di puntare contro l'approdo e il castello ben muniti di Roca, ma poi proseguirono ancora più giù. Il mattino del 28 luglio le navi da combattimento si disposero di fronte al porto di Otranto mentre le navi da carico si accostarono alle rade di Badisco e di Orte e vi sbarcarono 18.000 soldati, 700 cavalli, più di 100 bombarde e innumeri palle di pietra, ognuna pesante oltre un quintale. Le truppe furono schierate ad anello cingendo d'assedio l'abitato idruntino, mentre le bombarde e le munizioni furono disposte in punti tatticamente appropriati di fronte alle mura della città.
Nei giorni successivi, drappelli di cavalleria mussulmana percorsero le contrade salentine depredando e facendo bottino; attaccarono pure Galatina e Soleto e si spinsero sino a Squinzano; a Cavallino operarono una razzia di capi di bestiame e fecero prigionieri alcuni giovani; in uno scontro con gli armati leccesi, avvenuto nella zona tra Merine e la costa, i cavalieri turchi furono respinti e tornarono nei loro alloggiamenti di Otranto.
A questo antefatto si allaccia il Capitano Black, il nostro Peppino De Dominicis, il quale in forma epica e in tono solenne così inizia la poetica narrazione degli avvenimenti successivi.
invece ora, di tanta importanza storica rimane soltanto il nome della cittadina, in verità decaduta sia politicamente che economicamente, e tuttavia resiste il ricordo della sua eroica avventura.
In tempi passati, sotto Maometto II il Conquistatore, i Turchi mussulmani facevano lampeggiare su metà della terra lo stemma della Mezzaluna, in tutto l'impero ottomano si affermò il Corano islamico e fu cacciato il Vangelo cristiano.
era precisamente l'alba del 28 luglio 1480 quando da dietro a Punta Fortino, uno sperone roccioso vicino a Otranto, apparve il primo veliero turco, e in poco tempo il mare antistante si riempì di 200 navi nemiche. Anche il cielo si coprì di nembi minacciosi e la superficie del mare fu percorsa come da un lamento e l'aria fu attraversata come da una supplica.
Comandava l'armata turca l'ammiraglio Agomat Pascià. Egli, dopo aver disposto l'assedio per mare e per terra intorno alla città, inviò alle autorità otrantine un messaggero, che, avvicinatosi a una delle porte, ad alta voce disse:
- Cittadini di Otranto, io reco o guerra o pace. Scegliete voi. Se desiderate la pace, basta che vi sottomettiate al sultano Maometto II. Considerate quanti altri potenti sovrani si sono già sottomessi all'Impero della Mezzaluna, considerate quanti altri eserciti d'infedeli sono stati già sbaragliati dagl'invincibili guerrieri di Allah. Dunque, arrendetevi!
Dall'alto della torre il Sindaco della città rispose: - Gli Otrantini sono unanimemente decisi a non arrendersi, sono anzi pronti a lottare fino all'ultimo uomo per difendere la propria città e la propria religione, giacché uomini e donne, vecchi e giovani sono animati da vero amor di patria e da vera fede nel Signore Iddio: da quella fede che spinse Davide ad affrontare con una fionda il gigante Golia e ad ucciderlo, da quella fede che permise a Giosuè di fermare il sole e prolungare la luce diurna per dar tempo alle sue truppe di sbaragliare i nemici, da quella fede che consentì a Mosè di separare le acque del mare e permettere al suo popolo di salvarsi dall'inseguimento delle truppe del Faraone.
- Una città si conquista combattendo! - esclamò fieramente il Sindaco - e, a conferma della determinazione di tutti i cittadini alla resistenza, invece di consegnare in segno di resa le chiavi della città richieste dal messaggero maomettano, a disfida le lanciò e le disperse nelle acque del porto, rendendole irrecuperabili.
Qualche tempo prima dello sbarco dei Turchi, re Ferrante aveva mandato 1.000 soldati e 400 lancieri a presidio di Otranto; purtroppo, i mille presidiari regi, durante la notte vigliaccamente si calarono dalle mura e disordinatamente fuggirono per i campi.
Dopo che il messaggero, di ritorno, ebbe riferito la fiera risposta ricevuta da parte degli assediati, il comandante Agomat montò su tutte le furie e con animo crudele ordinò alle schiere di terra:
Alla prima bombarda partita dall'altura di Roccamatura rispose la seconda sparata da Cucurizzo, e poi seguirono le palle lanciate dalle postazioni di Ajamaranga, cui fecero eco le altre tirate dal colle della Minerva; e i pesanti proiettili marmorei presero a cadere dentro l'abitato e la morte si mise a svolazzare per le vie di Otranto e tutta la città si coprì di polvere e di caligine.
Gli assediati, uomini e donne, trascorsero la notte a riparare i danni subiti dalle mura; i capitani Francesco Zurlo e Giovanni Antonio Falconi approntarono armi e munizioni per il giorno veniente; i giovani combattenti occuparono le postazioni a ciascuno assegnate; i vecchi e i bambini, raccolti nel Vescovado e rincuorati dai sacerdoti, rivolgevano invocazioni d'aiuto a Dio Onnipotente.
Giunta l'aurora, questa volta cominciando dal colle della Minerva, ripresero i cannoneggiamenti: rimbombi sino a metà mattino, schianti sino a mezzodì, fragori sino alle tre pomeridiane, cannonate fino al tramonto del sole.
Seguì una notte di calma, ma all'alba nuovamente ripresero le cannonate e i tentativi d'assalto; e così la notte successiva e così il giorno seguente e così le notti e i giorni venienti; alla fine le torri rimasero tronche e le mura subirono crepe e lesioni. Comunque, tu, Agomat,
Dopo dieci giorni d'intensi bombardamenti gli assedianti credettero che presto si sarebbero impadroniti della città. Pertanto, Agomat mandò un altro messaggero, il quale invitasse ancora una volta gli assediati a venire a patti. L'ambasciatore, cercando di essere persuasivo, disse: - Voi, Otrantini, sapete che dal vostro Re non potrete ricevere aiuti. L'ostinazione non serve ai deboli quando lottano con i forti. Dunque, arrendetevi e sarete salvi.
Ladislao De Marco non sopportò quelle tracotanti parole, strappò l'arco al soldato più vicino, mirò, tirò, lo colpì, lo uccise! Poi si volse ai concittadini presenti e li esortò a giurare sul Vangelo di continuare a combattere strenuamente per la difesa della patria e della fede,
Con il nuovo giorno ripresero gli scontri ancor più accaniti tra assalitori infuriati e difensori determinati.
A ondate successive le schiere turche si precipitavano contro le mura sbrecciate e i difensori otrantini, guidati dal comandante Angelo Maiorano, accorrevano qua e là ad opporre i loro petti. Evidentemente, le perdite furono gravi dall'una e dall'altra parte, numerose le ferite e molte le uccisioni.
Il quindicesimo giorno, un ulteriore assalto alle mura fu ritentato dall'armata nemica, infuriata al pari di una tigre che si vede strappare un agnello dalla bocca. Questa volta nella muraglia adiacente alla torre campanaria venne aperta una larga breccia e lì si precipitarono gli assalitori e lì accorsero i difensori e lì s'accanì il combattimento. Purtroppo la lotta era impari: dieci contro cento… Il giorno 12 agosto, di venerdì, i nemici saraceni riuscirono a superare i bastioni e le mura, spalancarono le porte, si riversarono come una fiumara nella città e si sparsero per le strade e per i vicoli, compiendo una carneficina;
Fra i tanti caddero anche gli illustri cittadini Marzo Petracca, e Antonio De Raho, il capitano stesso Francesco Zurlo, e poi anche Colangelo De Marco e Nicola Mazzapinta.
Strada per strada, casa per casa, tutti gli abitanti che venivano scovati erano sventrati con le scimitarre. Non c'erano vie d'uscita dalla città, non c'erano nascondigli sicuri, persino le cantine e i sottoscala erano sottoposti a ispezione. Non servivano i pianti delle madri nutrici né le suppliche dei vecchi inabili presso quei cuori crudeli d'assassini. Inoltre, quei carnefici, mentre esultanti pregavano invocando "Allah, Allah è grande", prima violentavano le giovanette e poi con la scimitarra le squarciavano al ventre.
Molti residenti, specialmente le vecchiette e i bambini, si erano rifugiati nella Cattedrale, speranzosi nell'aiuto del Signore e nella protezione dell'Arcivescovo mons. Stefano Pendinelli, un sant'uomo di 80 anni. Inutilmente.
Furono trafitti anche i sacerdoti che celebravano la messa, e le ostie consacrate furono sparse per terra e calpestate. Poi quei maomettani esaltati frantumarono le statue dei Santi, scrostarono i sacri dipinti, sbriciolarono gli affreschi…, e la polvere dei calcinacci s'impastava con il sangue delle persone massacrate,
Soltanto dopo un anno, cioè dopo l'allontanamento dei Turchi da Otranto, quell'immagine della Vergine ricomparve sulla tela, e i superstiti pensarono e credettero a un prodigio. Re Ferrante, a ricordo dell'eccidio, fece dipingere e collocare nella Cattedrale una tela, che ricordava il miracolo di Maria Vergine che scompare e ricompare, pala d'altare che reca l'iscrizione: divino evanuit prodigio, (l'immagine) svanì per divino prodigio.
Il rastrellamento è terminato, l'eccidio degli abitanti è compiuto, Otranto è ammantata in un funereo silenzio.
Tuttavia, le tante azioni d'eroismo sinora compiute dalla città di Otranto non bastavano per farsi ricordare dai posteri, le tante testimonianze di estremo sacrificio dimostrate dai cristiani non erano sufficienti per sbalordire il mondo. Gli Otrantini dovevano affrontare ulteriori sacrifici e subire altre crudeltà da parte delle fanatiche schiere saracene.
Allo sterminio della popolazione offerto al Dio Allah, erano sopravvissuti soltanto 800 abitanti d'ogni età e condizione, i quali, tuttavia, erano trattenuti in catene. Tra di essi c'era pure Idrusa, una fanciulla risparmiata alla morte proprio per la sua straordinaria bellezza, ma ridotta a schiava.
Idrusa, spaventata e piangente, era ancor più bella, sembrava come un'innocente tortora tra gli artigli di un falco.
Sabato 13 agosto, tutti i prigionieri superstiti furono incatenati e sospinti come bestie e radunati in uno spiazzo sul colle della Minerva, distante appena 300 passi da Otranto. Domenica 14 agosto, accompagnato dai suoi capitani, comparve il condottiero Agomat il quale sedette sotto un baldacchino damascato. Egli con sguardo torvo fissò a uno a uno i prigionieri, poi con voce truce comandò loro di mettersi ginocchioni, quindi li invitò ad abiurare solennemente la religione di Cristo e ad abbracciare la religione di Maometto.
A questo punto, come una serpe nascosta sotto l'erba è pronta a schizzare all'intorno il suo micidiale veleno, così da una tenda uscì un rinnegato, un ex prete calabrese, il quale perfidamente tentò per l'ultima volta di persuadere gli 800 cristiani prostrati ad abbracciare la fede musulmana, in cambio della liberazione.
Egli, rivolgendosi a tutti i detenuti incatenati, e principalmente ad Antonio Pezzulla detto Primaldo, disse: - Non vi accorgete che la vostra ostinazione vi porterà alla rovina? Non comprendete che Allah è più potente del vostro Dio e che l'aiuto portato da Maometto a noi maomettani è stato più efficace e valido dell'aiuto portato da Cristo a voi cristiani? Pertanto, decidetevi una buona volta:
Proprio in quel momento, da una tenda uscì una giovanetta, scarmigliata, discinta, emaciata, gli occhi aridi per il lungo pianto, una fanciulla irriconoscibile dalla primitiva splendida Idrusa. Ella, scappando, s'imbatté nei due fratelli, insieme incatenati, e domandò loro dove fossero trascinati, ed essi risposero che in letizia andavano a morire per amore di Gesù.
Agomat, resosi conto dell'incrollabile determinazione dei cristiani di rimanere fedeli a Cristo, visti fallire il suo tentativo e la sua speranza di indurre gli 800 otrantini a convertirsi alla religione di Maometto, impartì l'ordine perentorio di sterminio.
Si fece avanti il boia Berlabei, il quale prima sistemò il ceppo, poi con la sinistra afferrò per i capelli Antonio Primaldo e gli piegò di lato il capo, poi con la destra brandì la scimitarra e con un colpo preciso e netto decapitò il primo martire: la testa di Primaldo rotolò per terra gorgogliando: «Santa Fede», invece il suo corpo si drizzò e rimase ritto e saldo come una colonna.
Il boia Berlabei diede uno spintone a quel corpo senza testa ritto in piedi. Invano. Il tronco umano rimase diritto. Altri due Turchi provarono per farlo stramazzare. Invano. Il corpo decapitato rimase saldo e ritto come torre. Intanto i prigionieri venivano decollati uno dopo l'altro e le teste dei martiri rotolavano giù per il pendio, i corpi si ammucchiavano e il sangue si spandeva intorno impastandosi con il fango.
Berlabei, mentre continuava la sua opera di carnefice, di tanto in tanto volgeva lo sguardo al tronco di Primaldo che, sebbene spintonato e scrollato, restava diritto e irrigidito.
Quando all'ultimo dei cristiani otrantini, Bernardo Coluccia basiliano da Galatina, fu mozzata la testa, allora l'attonito Berlabei vide stramazzare da sé a terra Antonio Primaldo, e allora spontaneo gli uscì un grido:
E così avvenne. Infatti, il mussulmano Berlabei si convertì al cristianesimo, accettò la condanna alla pena del palo e coscientemente affrontò la morte, congiungendosi alla schiera beata dei caduti per la fede di Cristo.
I cadaveri degli 800 otrantini rimasero insepolti per tredici mesi, esposti al caldo e al gelo, all'aria e alla pioggia, e non imputridivano ed emanavano un delicato profumo.
Di notte in quella zona si vedevano tante tremule fiammelle: erano i fuochi fatui che si sprigionavano dal terreno impregnato di sangue, invece i Turchi affermavano che erano i diavoli che venivano a prendere le anime di quei morti e portarle all'inferno.
Dopo tredici mesi di occupazione, essendo morto nel frattempo Maometto II, i Turchi abbandonarono la città di Otranto, che tornò sotto il dominio del suo re Ferrante. Solo allora il principe ereditario Alfonso d'Aragona venne a riprendersi la città, e in quell'occasione fece trasportare nella chiesa di S. Eligio i resti mutilati dei cristiani decapitati; successivamente queste reliquie furono traslate con tutti gli onori nella cappella della Cattedrale. (La causa di beatificazione degli 800 Santi Martiri d'Otranto fu trattata in Vaticano a Roma l'anno 1660).
Quando ai giorni nostri, nei dintorni dell'abitato il villano, arando o zappando, estrae dal terreno un brandello di spada,
Ancora oggi, spesso le madri portano i figlioli in pellegrinaggio nell'antica cittadina dei Santi Martiri e li accompagnano alla chiesetta del colle della Minerva; unitamente rivolgono una preghiera di ringraziamento alle anime degli eroici otrantini che con il loro valore fermarono l'avanzata degli invasori e con il loro sangue spensero la furia dei Turchi, così che
Agli inizi dell'anno 1903 il componimento poetico è presentato e letto per la prima volta nell'aula magna dell'Istituto Tecnico di Lecce ed è accolto con sincero favore; poi, nel mese di marzo, il poeta in persona, dietro invito, declama il poemetto nel Seminario di Otranto alla presenza dell'Arcivescovo mons. Pugliese, del Sindaco, di tante Autorità e di moltissimo pubblico, suscita frequenti moti di viva commozione, provoca fervorosi applausi e merita unanimi consensi.
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