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I Castromediano | ||
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Luigi I (c.1370-1439), 9° barone di Cavallino |
Giovanni Antonio I (1410-1481), 10° barone |
I Turchi occupano Otranto |
I CASTROMEDIANO
Giovanni Antonio I (1410-1481), 10° barone
L'anno 1439 al barone Luigi I Castromediano successe il figlio Giovanni Antonio I, il vecchio. Egli sposò la bella e cara Delfina Sangiorgio da cui nacquero Luigi il successore, Francesca che andrà sposa a Bernardo Guarino, Antonia che sarà monaca benedettina, Giovanni che sarà Amministratore regio, e Pirro morto assai giovane.
Verso il 1442, la baronessa Mita de Noha, nubile, cugina di Aloisia, con l'assenso della contessa Maria d'Enghien sua amica, donò al barone Giovanni Antonio I, quale parente di grado più vicino, la propria quota parte di Tafagnano, sicché l'estensione del feudo di Cavallino risultò quasi raddoppiata.
Luigi I Castromediano aveva considerato l'acquisizione della baronia di Cavallino come un antico possedimento dei de' Noha ricaduto per circostanza speciale ai de' Castromediano di Lecce; invece suo figlio e successore Giovanni Antonio I giustamente sentiva il possesso del feudo come diretta eredità e come legittima proprietà di famiglia, anche perché, con Atto del 30 agosto 1447, i diritti, le prerogative, i privilegi, i titoli subfeudali vennero riconosciuti e sanzionati a lui in persona e ai suoi successori dal nuovo grande feudatario principe Giovanni Antonio Orsini del Balzo, il quale, morta la madre contessa Maria d'Enghien (+1446), aveva giurisdizione preminente e potestà incontrastata sul Principato di Taranto, sulla Contea di Lecce e sul Ducato di Bari e su tante altre terre della Campania e della Basilicata: quasi un Sovrano assoluto nel suo vastissimo dominio feudale, dal momento che la Sovranità Reale di Napoli era lontana e si faceva debolmente sentire nelle province.
Similmente il barone, nell'ambito del proprio dominio, riuniva in sé tutti i poteri: quello finanziario, quello giuridico civile e penale di 1° grado, e persino quello militare, avendo egli il dovere, in caso di mobilitazione, di armare un certo numero di suoi vassalli e di correre agli ordini del Re.
CAVALLINO - Il primitivo settore del maniero feudale (foto P. Garrisi) |
Pochi anni prima, alla morte della regina Giovanna II (1435) il Regno di Napoli era ripiombato nel disordine; dalla lotta armata per la successione risultò vincitore lo spagnolo Alfonso d'Aragona che, dopo avere sconfitto e scacciato il rivale pretendente francese Renato d'Angiò, nel 1442 s'impadronì della corona e del trono di Napoli. Ebbe inizio allora la lunghissima dominazione spagnola che si protrasse sino ai primi decenni del Settecento.
Sapendo di avere ostili quasi tutti i baroni, filoangioini, il re Alfonso convocò a palazzo reale tutti i feudatari del regno per ricevere da loro l'attestato di obbedienza e per rinnovare a ciascuno di loro la titolarità della concessione feudale.
Presto si rese conto della potenza e della presunzione del principe Giovanni Antonio Orsini del Balzo. Per renderselo amico, il re con calcolo politico lungimirante gli chiese per il figlio Ferrante la mano della nipote Isabella, figlia di Tristano di Chiaromonte conte di Copertino e di Caterina Orsini del Balzo, sorella e unica erede del principe Giovanni Antonio. Questi si sentì lusingato della proposta e altrettanto orgogliosa ne fu Isabella, graziosa fanciulla nata e vissuta a Lecce, educata alla Corte della Contea.
A dì 30 Aprile re Alfonso mandao ad Lecce Semone Pierez Corellia cum multi Segnuri pe pilliare Isabella de Chiaramonte mogliera de lo Segnore Duca de Calabria et portarela ad Napoli.1
L'anno 1458, alla morte di Alfonso d'Aragona, Ferrante e Isabella furono re e regina di Napoli.
Il patto di concordia tra il re e i turbolenti baroni si guastò allorquando questi furono certi che re Ferrante d'Aragona conduceva una politica sempre più accentratrice dei poteri sovrani a scapito delle prerogative, dei privilegi e dell'autonomia dei signori feudatari. E il principe Giovanni Antonio Orsini del Balzo riprese la trama di ricompattare la coalizione antiaragonese.
Il principe di Taranto, duca di Bari e conte di Lecce, nutrendo qualche sospetto sulla fedeltà del suo subfeudatario Giovanni Antonio I Castromediano barone di Cavallino, per legarlo a sé gli promise in concessione una quota parte anche del feudo di Morciano di Leuca in territorio della contea. Però il Castromediano, prevedendo che nella contesa sarebbero alla fine prevalse le sorti regie, si schierò dalla parte di S. M. il Re. Il detto Gio: Antonio in tutte le guerre del regno, e fuori si portò con gran coraggio e fedeltà, sì che fù fatto ultimamente Capitan de' cavalli della nuova Milizia, e confirmato dal Re Ferdinando (o Ferrante) di cui egli fù Consigliere.2
L'anno 1463 l'Orsini del Balzo, incalzato dai soldati del re, si rifugiò nel proprio castello di Altamura, e qui fu colto da improvvisa morte (qualcuno sospettò per avvelenamento, altri per strangolamento).
Die 15 Novembrio in Altamura lo Illustrissimo signor Prencipe Iuhanne Antonio fo morto senza figliuoli remanendo suo Stato solo, allora Lecce prima levò le bandiere del Re Ferrante et de la Regina Isabella sua mogliere, nepote del dicto Prencipe, et però tutto lo Stato fece come havia facto Lecce.3
(Egli) …non fece figli leggittimi ma bastardi; e questo Stato pervenne ai catalani Re di Napoli cioè al Re Ferrante I di Aragona in virtù del matrimonio con sua nipote Isabella di Chiaramonte che fu sua erede.4
Tutti i vassalli della baronia di Cavallino si fecero arditi e innalzarono le insegne reali e invocarono il sovrano affinché li accogliesse nel regio demanio.
Il 6 dicembre 1463 re Ferrante d'Aragona venne a Lecce, la città di nascita della moglie regina Isabella di Chiaromonte, per prendere possesso della Contea di Lecce e del Principato di Taranto e del Ducato di Bari.
Il Re entrao en Lezze et pe omne loco fo receputo sotto pallio de oro carmosino et se mostrao co omne benegno et graziuso.5
Il giorno successivo si recò al castello e dal castellano Bartolomeo Prato si fece accompagnare nei locali ben muniti dove era custodito il tesoro del principe-duca-conte Orsini del Balzo. All'apertura dei forzieri e alla vista dei grossi mucchi di ducati d'oro, Ferrante gioì compiaciuto; e quando nei magazzini trovò ammassati oltre diecimila tomoli di grano, fu veramente felice e diede l'ordine che le provviste alimentari fossero subito distribuite ai soldati che di tanto in tanto protestavano: "Fame, fame! La paga, la paga!"
Il 10 dicembre Ferrante d'Aragona ricevette in udienza i baroni della Contea i quali gli fecero atto di sottomissione e di devozione. Arrivato il suo turno, anche il barone di Cavallino Giovanni Antonio I Castromediano si inginocchiò, depose la spada ai piedi del sovrano, posò la destra sul sacro messale e giurò obbedienza e fedeltà a Sua Maestà il Re, a nome proprio e per conto dei suoi familiari e dei suoi vassalli.
Ma i residenti cavallinesi riuscirono a far pervenire all'amato sovrano anche un'umilissima petizione con cui invocavano di essere sciolti dai vincoli del vassallaggio e di essere accolti nel regio demanio. In verità, i vassalli, villani e artieri, consideravano il Sovrano il solo possibile difensore contro gli arbitrii e i soprusi dei Signori.
Re Ferrante con decreto stabilì che la Universitas (la Città) di Lecce, le terre, i borghi, i villaggi, i casali non infeudati della Contea fossero incorporati nel regio demanio, che la Contea fosse abolita e che Lecce mai più sarebbe stata concessa ad un feudatario.
La supplica dei Cavallinesi non fu accolta perché Cavallino già era un feudo legittimamente costituito; tuttavia il re non sanzionò neppure la conferma del dominio feudale al barone Giovanni Antonio Castromediano, riservandosi di provvedere in seguito. Effettivamente, soltanto nel 1467, con privilegio datato 16 dicembre l'infeudazione del casale di Cavallino venne dal re rinnovata in favore della casata de' Castromediano, come premio per la devozione di essa alla monarchia aragonese. E allora il barone Giovanni Antonio I, rassicurato, comprò dal leccese Stefano Barone la metà della contrada Vermigliano, nelle vicinanze della città di Lecce, accrescendo ulteriormente i beni allodiali della famiglia.
Il barone don Giovanni Antonio I Castromediano nella conduzione agraria del feudo di Cavallino profittava della collaborazione del fratello don Sigismondo, il quale aveva esperienza e competenza in agronomia in quanto che da anni conduceva con molto profitto la vasta tenuta agricola che la moglie donna Pentesilea Guarino gli aveva portato in dote; una masseria detta appunto de "li Cuerini", comprendente oltre che campi seminativi anche oliveti e vigne, attigua alla contrada di Ussano e vicina al territorio di S. Donato.
I coniugi don Sigismondo e donna Pentesilea non avevano avuto prole, sicché alla morte, nel 1468, della Signora moglie la masseria de li Cuerini passò per diritto maritale in proprietà del Signor marito, e quando due anni dopo anche egli morì, la tenuta agricola ricadde in proprietà allodiale della casata dei Castromediano di Cavallino.
Si sapeva per esperienza che non di rado nel regno insorgevano gravi malattie infettive: colera, peste, vaiolo, epatite, dissenteria, epidemie facili a diffondersi sia perché difettava qualsiasi cautela d'igiene personale e ambientale, e sia perché i contagi colpivano corpi già debilitati da insufficienza alimentare cronica.
L'anno 1466 Lecce città fu travagliata da una grave epidemia. In Lecce fu una grande peste dove moriano sessantasei persuni lo dì, durò anni duo, e foronci morti quattordicimila persuni.6
Per preservare il casale di Cavallino dal contagio, il barone don Giovanni Antonio I ordinò ai dimoranti entro l'abitato di alzare sino a 13 palmi i muri dei propri orticelli retrostanti alla casa e aperti alla campagna; due soli varchi controllabili furono lasciati per l'ingresso nel paese; ai Cavallinesi fu proibito di recarsi in città e nei casali circonvicini; a nessun forestiero fu permesso di entrare nel casale.
Tali precauzioni si rivelarono abbastanza efficaci contro l'invasione del morbo, sebbene non preservarono del tutto gli abitanti del casale: non si ebbe la morìa che desolava la vicina popolazione di Lecce, tuttavia anche in Cavallino si verificò un aumento del numero dei morti, tanto che le sepolture esistenti sotto il pavimento della Chiesa matrice non furono sufficienti ad accogliere le salme di tutti i defunti, e si dovettero scavare altre tombe all'aperto, fuori dal perimetro del luogo sacro.
Il barone don Giovanni Antonio I, preferendo che le salme dei suoi familiari non venissero seppellite nelle fosse comuni, in un suo giardinetto poco discosto dalla chiesa matrice fece erigere un tempietto padronale, una cappella di famiglia, che volle intitolato a S. Nicola di Bari.
La cripta |
La cappella fu costruita al di sopra di una piccola cava preesistente, e questa fu adibita a sepoltura riservata ai Castromediano7
Domata la peste, accogliendo la supplica della civica Università di Lecce, re Ferrante, per ripopolare la città, con delibera datata 15 marzo 1467 ordinò che i Leccesi che si erano allontanati tornassero nelle proprie case pena la confisca dei loro beni urbani8; inoltre, in favore dei forestieri che volessero stabilirsi in Lecce concesse la esenzione per un decennio sia dai tributi fiscali regi e sia dai pesi daziari cittadini. Della regia ordinanza approfittarono molti vassalli dei baroni, specialmente giovani artieri, manovali, servitori, i quali emigrando in zona demaniale speravano di liberarsi dai vincoli di vassallaggio. Ma i baroni cercarono di trattenere i propri sudditi con ogni mezzo, persino con i cani addestrati a immobilizzare i fuggitivi.
E la civica Università di Lecce, lamentandosi, informò il re che …essendo venuti vaxalli de alcuni baruni a faresi citatini de dicta cità, li dicti baruni et signanter (segnatamente) Ioanne Antonio barone de Caballino, li impediscono…9, e supplicò il Re di intervenire e rinnovare a favore della città la potestà di concedere la cittadinanza leccese ai forestieri che chiedessero la residenza in Lecce, la città tanto cara alla regina Isabella.
Ma Giovanni Antonio I Castromediano e altri feudatari non si acquietarono e ricorsero alla Regia Corte, facendo presente che diminuendo i vassalli venivano a mancare le braccia da lavoro per cui sempre più campi rimanevano incolti, e sempre più scemavano i redditi agrari, e sempre più diminuivano le possibilità loro di soddisfare gli obblighi annuali verso il Regio Fisco. Pertanto, citando precedenti privilegi sovrani, chiesero supplicando che i loro sudditi fuggitivi fossero obbligati a tornare nelle terre e nei casali che avevano abbandonato. Re Ferrante, l'11 dicembre 1468, alquanto seccato, rispose che avrebbe in seguito provveduto a risolvere la controversia10.
Il barone Giovanni Antonio I, adottando il metodo della civica Amministrazione di Lecce, concesse vantaggiose esenzioni di tributi a chi volesse venire ad abitare a Cavallino, e parecchi forestieri accolsero l'invito sia perché c'erano sempre dei baroni più oppressivi di altri e sia perché gli immigrati miravano ad avvicinarsi al capoluogo, con la speranza di trasferirsi in fine in città.
L'anno 1466 i Cavallinesi assistettero ad un avvenimento che ricordarono per molto tempo: la venuta nel casale di un festoso corteo di baroni, marchesi, conti, duchi e rispettive consorti, a cavallo e in carrozza, che accompagnavano da Barbarano a Cavallino i novelli sposi Luigi, figlio di don Giovanni Antonio I Castromediano, e Ruzia, figlia di don Antonio Capece, uno dei condottieri del Regio Esercito. I coniugi presero dimora nel palazzo baronale; in seguito, dalla loro unione nacquero Dianora che sarà monaca, Sigismondo il successore, Tommaso che sarà arcidiacono in Brindisi.
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