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Sigismondo Castromediano | ||
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Carceri e galere borboniche
Il 28 maggio 1851, dopo due anni e sette mesi di detenzione nel carcere di Lecce, il Castromediano e lo Schiavoni, insieme ammanettati, con una carrozza noleggiata a loro spese cominciarono il lungo viaggio per Napoli, scortati da quattro severi gendarmi armati di fucili, di pistole e di pugnali. A mezzogiorno del 4 giugno arrivarono nella capitale e furono rinchiusi nel castello del Carmine adibito a bagno penale, dove erano stati preceduti dagli altri amici condannati salentini.
Lo stesso pomeriggio i prigionieri politici vestirono la divisa a strisce di galeotto e furono avvinti, a due a due per le caviglie, ad una catena a sedici maglie, lunga tre metri e mezzo, pesante dieci chilogrammi: Sigismondo Castromediano con Nicola Donadio, Nicola Schiavoni con Michelangelo Verri. Qualche giorno dopo, Sigismondo ricevette la gradita visita del padre Domenico, dei fratelli Errico e Ascanio e del cavallinese Raffaele Arigliani studente di medicina a Napoli.
Il 22 giugno 1851, Schiavoni e Verri, Castromediano e Donadio, Erario e Casaburi dal carcere del Carmine furono trasferiti nel bagno penale di Procida, la regina delle galere borboniche, «la cloaca massima dove, naturalmente, percola quanto la società ha di più feccioso ed infame: briganti, assassini, parricidi, grassatori, ladri, falsari, ignoro in qual modo, scappati alla forca. L'indole e il fine di questo lavoro mi obbligherebbero a largamente diffondermi e parlare a lungo delle galere e dei loro abitatori, dire di quelle gli orrori, i misteri, le sozzure, e come in tutti i sensi vi si oltraggi l'umanità e la Divinità, di questi lo stato miserando, la vita, i costumi, le sozzure, i delitti e le inverecondie».1
Ha inizio il calvario della trentennale detenzione, in luoghi di tormentosa sofferenza, che il prigioniero cavallinese, però, è già cristianamente preparato ad affrontare con spirito di sacrificio, per il bene futuro della patria.
L'8 febbraio 1852, la corvetta Rondine prelevò prima i reclusi politici del carcere di Nisida e dopo quelli del bagno di Ischia, tra cui Cesare Braico medico brindisino, il barone Nicola Nisco avellinese, l'avvocato Michele Pironti salernitano, Leone Tuzzo leccese, e il barone Carlo Poerio di Napoli, anch'egli condannato sol perché proteso «al pacifico trionfo del reggimento costituzionale»2. Poi, la piccola nave militare attraccò nel porticciolo di Procida e prese a bordo altri detenuti, tra cui il duchino Sigismondo Castromediano e il gentiluomo Nicola Schiavoni; allora avvenne il primo emozionante incontro tra il Castromediano e il Poerio, entrambi di carattere nobile e saldo, e istintivo tra i due sorse un duraturo sentimento di simpatia.
I prigionieri, incatenati, scortati dai gendarmi furono fatti sbarcare nella darsena del porto di Napoli; da qui, il giorno dopo, in quattro su ogni carrozza, furono accompagnati nel bagno penale, meglio nelle caverne, di Montefusco, in provincia di Avellino, un carcere tenebroso isolato tra i monti dell'Irpinia, a proposito del quale una canzone popolare diceva:
Ai carcerati giornalmente erano forniti due pasti: un pane raffermo e una minestra brodosa a mezzogiorno, un pane raffermo e una minestra brodosa al tramonto. Il detenuto poteva ottenere qualsiasi altra cosa desiderata, pagandola però a costo raddoppiato: il prezzo effettivo dell'acquisto più un'uguale cifra di compenso al carceriere che cortesemente soddisfava la richiesta.
Trovandosi avvilito in questa tremenda prigione, Sigismondo per lettera venne a sapere della morte della cara sorella Luisa, nubile di 27 anni, avvenuta in Lecce il 20 luglio 1852, e, dopo soli due mesi, fu informato della morte del padre Domenico deceduto a Napoli all'età di 67 anni.
Il duca Sigismondo Castromediano, inserito senza riguardo tra i delinquenti comuni, soffrì le pene, le privazioni, le torture delle inumane carceri borboniche, …nelle cui corsie non s'osservavano che offese al pudore, alla decenza, alla morale, alla legge, a Dio.3
Per tutti gli anni di prigionia, vera consolazione per il detenuto Castromediano fu la frequente corrispondenza epistolare con l'amico d'infanzia don Pasquale De Matteis di Cavallino, semplice prete di paese, il quale l'anno 1854 dal tribunale di Lecce fu nominato curatore giudiziario del patrimonio dell'amico prigioniero; tale incarico fu espletato dal sacerdote con capacità e abnegazione. Le lettere informative e affettuose inviate da don Pasquale al duca Castromediano non fu possibile serbarle, a causa del rigido regolamento carcerario; invece furono conservate le 136 lettere da Sigismondo indirizzate a don Pasquale, previdente, il quale poi le restituì al mittente, una volta questi tornato libero4.
E nel carcere di Montefusco incontrò maggiori umiliazioni, soffrì più acuti tormenti fisici e morali, provò più spiacevoli motivi di dolore e di tristezza; pertanto si raccomandò con più fervore ancora all'amico sacerdote don Pasquale: «Tu, ed i miei caballinesi non cessate di raccomandarmi alla Vergine del Monte, nostra speciale patrona,… Sono stanco, non ne posso più: ora da Lecce, ora da Napoli questi miei fratelli e sorelle mi procurano dispiaceri»5.
Ancora: «Dio perdoni mio zio il cavaliere (Giovan Battista), cagione di tanti disordini;… Sono dolentissimo della condotta di Chiliano, alla quale certamente non darò retta, specialmente avendo saputo l'origine, già da me sospettata, dei suoi guai. Qualunque cosa abbia potuto fare coll'Ingrosso di Lizzanello, anche servendosi del mio nome, non intendo approvar nulla, né bonificare»6.
Dopo alcuni anni di durissima prigionia Sigismondo è ridotto male, ma proprio male in salute: dimagrisce di mese in mese, soffre agli occhi e alla gola, ha i visceri gonfi, le orbite incavate, talvolta ha forti capogiri che lo lasciano privo di sensi; insonnia, freddo alle ossa d'inverno e caldo umido d'estate gli cagioneranno la gotta.
Un giorno, con grande sua sorpresa, il Castromediano, tuttora con la divisa di galeotto, con la catena al piede, viene tradotto a Napoli. Qui lo attende la sorella Costanza, la quale, grazie al vescovo di Lecce Nicola Caputo, napoletano di nascita, amico e benefattore dei perseguitati politici leccesi, cerca di aiutarlo.
Costanza informa il fratello che "se dichiarasse di riconoscere il suo delitto di lesa maestà e sottoscrivesse la domanda di grazia", dal Re Ferdinando otterrebbe il condono e la libertà.
- E la medesima sorte sarà riservata anche ai miei compagni di sventura?
- No, purtroppo. Solo a te…
- E io me ne torno a Montefusco.
Questo suo proposito di rimanere moralmente integro anche nella sventura, questo suo esemplare atto di solidarietà, questa sua determinazione al martirio, in seguito, al duca Sigismondo Castromediano furono attestati dai cittadini leccesi, allorché (nel 1905) al patriota cavallinese dedicarono una piazzetta di Lecce e gli eressero un monumento (opera dello scultore Antonio Bortone) alla cui base vollero la scritta:
Lecce, monumento a Sigismondo Castromediano, di A. Bortone, 1905 - (foto di P. Garrisi) |
Il 28 maggio 1856, il galeotto Castromediano dal bagno di Montefusco passò a provare le sofferenze anche del carcere di Montesarchio, in provincia di Benevento, sempre più debilitato nella salute, sempre più prostrato nello spirito, tanto che, se non avesse fidato nella Provvidenza, avrebbe toccato l'apice della disperazione.
Qui fu raggiunto dalla ferale notizia che anche il suo prediletto fratello Ascanio era morto a Napoli, giovane di trentotto anni. «Mio caro Pasquale, eccomi nuovamente nel dolore. Oh quanto me ne sono toccati nella vita! Oh quanti più, lungo la via di questa mia grave sventura! E sebbene mi sentiva ben tetragono ai colpi di sventura, come dice il Dante, pur questa volta non ho retto e, stanco di tanto soffrire, non ho più lagrime, non più lamentanze a trarre, non mi resta che un desiderio, una voglia smodata di ritornar perdonato nel pacifico e misericordioso seno di Dio».7
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